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INTERVISTA
La libertà come realtà escatologica
Comincerò con dei versi che amo fin dagli anni di scuola. È una poesia di P. Éluard. È lunga, perciò leggerò soltanto le strofe iniziali e finali.

Sui miei quaderni di scuola
Sulla corteccia del tiglio
Sulla mobile sabbia sulla neve
Il nome tuo io scrivo

Su tutte le pagine lette
Su tutte le pagine vuote
Pietra sangue carta e cenere
Il nome tuo io scrivo

Sulle cornici dorate
Sui fucili dei soldati
Sulla corona dei re
Il nome tuo io scrivo

Sulle giungle e sul deserto
Sui nidi e le ginestre
Su ogni eco dell’infanzia
Il nome tuo io scrivo
…..
Sulla salute rinata
Sul pericolo scampato
Sull’avventata speranza
Il nome tuo io scrivo

E per la forza di questa parola
Io comincio a vivere di nuovo
Nato per conoscere te
Per fare il tuo nome

Libertà


Questi versi sono stati scritti nel 1942 nella clandestinità antifascista. In sintesi: il poeta scrive il nome libertà su tutta la sua vita e su tutto quello che incontra nel mondo. Colpisce qui quasi ogni cosa concreta da lui scelta in questo «tutto». Cosa ne è di queste cose dopo che su di esse è stato scritto il nome «libertà»? Cosa ne è della «verità evidente», della «nuda orfanezza», dell’»ogni stretta di mano»?1 Esse diventano aperte; non sono più chiuse nella propria datità, in esse c’è l’altro, il futuro. Il tema della libertà (nel suo alto registro) è inevitabilmente legato al futuro; la non libertà (la schiavitù, la necessità, eccetera) alla mancanza di futuro. E, per ciò stesso, alla mancanza del presente, nel suo pieno significato.

Éluard non è un autore cristiano, ma l’atto che compie in questi versi è esattamente l’opposto dell’azione dell’anticristo che, com’è noto, scrive il suo nome, il nome della bestia (Apocalisse 13, 16-17). La consacrazione delle cose alla libertà sta a significare l’accoglimento di esse – e la rinuncia ad appropriarsene. Questa è appunto la «santa libertà» della tradizione poetica.

Lo ammetto: vorrei non aver tradotto, ma aver scritto questa poesia. Penso che molti poeti desidererebbero la stessa cosa. In effetti lo hanno anche fatto, in altra forma.

Puškin:

Di libertà seminatore solitario,
Sono uscito presto, prima della stella;


Oppure:

Mi sono colmato di consolazione;
Perché mormorare contro Dio,
Se anche a una sola creatura
La libertà ho potuto donare!


Oppure:

L’amore e l’arcana libertà
Hanno ispirato al cuore un inno semplice.


L’ «arcana (misteriosa) libertà» di Puškin diventerà la legge della poesia russa.

Blok:

Puškin, l’arcana libertà
Noi cantiamo seguendo te…


E ancora (sul poeta)

Egli è tutto figlio del bene e della luce
Egli è tutto celebrazione della libertà


Mandel’štam:

Io alla libertà come a una legge
Sono promesso e per questo…

Ecc. Ecc.

Marija Petrovych:

Non il rumore di odi servili
Di chiacchiere di giornale
Soltanto il silenzio della libertà
Glorificherà i nostri giorni.
2

Fino a Brodskij:

Avendo gustato la libertà,
Che di tutto è la più cara –
Fine, principio,
Poi che finanche ai nostri giorni
È esistita.


Sì, fino a Brodski, poiché qui ci tocca tirare una riga e ascoltare qualcosa di completamente diverso sulla libertà:

Ci minaccia tutti la libertà,
Libertà senza fine
Senza uscita, senza entrata
Senza madre-padre
In mezzo alla Russia
Per tutto il ventesimo secolo
Ed io di lei ho terrore,
Come uomo onesto

(D. A.Prigov)

Dalla parola «libertà» nel nostro attuale contesto russo è sparita la poesia, è sparito l’alto registro del suo significato. Quella libertà, della cui legittimità ora si discute, è essenzialmente prosaica. Il suo nome è il nome dei diritti dell’individuo riguardo a istanze impersonali, dei diritti delle minoranze, della libertà di voto eccetera (nell’interpretazione liberale). Sulle labbra di chi teme la libertà, «come uomo onesto», questo è il nome del caos, dell’illegalità, della connivenza, è il dare il via a tutto ciò che è distruttivo nell’uomo. Nessuno scriverà, come Éluard, su tutte le cose, questi nomi, né il primo, né il secondo. Forse noi siamo stati l’ultimo paese in cui la libertà – per alcuni, per la minoranza insignificante – ha conservato in somma misura il suo pathos poetico, morale e, nel suo genere, religioso («la sacra libertà» del diciannovesimo secolo). «Per la nostra e vostra libertà»: «vostra», ossia ceca. Con questo slogan nel 1968 alcune persone si recarono nella Piazza Rossa, per protestare contro l’occupazione della Cecoslovacchia da parte dell’esercito sovietico, e proprio per questo pagarono con anni di lager, ossia con l’assoluta privazione della libertà. C’era in questo slogan l’intuizione della tendenza della libertà alla reciprocità: colui che usurpa la libertà dell’altro non è libero; il violento non è libero, il mentitore non è libero. Quel pathos della libertà non intendeva «l’insubordinazione a qualsiasi ordine», ma l’insubordinazione a una palese violenza, il rifiuto di esserne partecipi. Non «non voglio essere costretto!», ma «non voglio essere colpevole (un vile, meschino traditore!)», ecco cosa significava questa passione per la libertà.

Non parlerò molto del rapporto tra significato politico e poetico della libertà. Senza dubbio sono connessi tra di loro. L’»arcana libertà» non è una libertà occulta. Molti abitualmente interpretano i versi che inneggiano alla libertà in senso puramente politico. In realtà costoro spesso si presentano in situazioni di grave mancanza di libertà politica. Ma intendono qualcosa di più e di essenzialmente diverso. L’artista, il pensatore che tiene in gran conto la libertà può essere – e assai spesso lo è – un uomo d’idee conservatrici e lealiste in politica (come il Puškin maturo, come Dante che sognava non l’universale anarchia ma la monarchia universale). La lealtà, infatti, – riguardo a cose neutrali – è più simile alla forma della libertà che non la rivolta (questo si dice nell’episodio del denaro da dare a Cesare).

Azzarderò una generalizzazione: la libertà costituisce la natura stessa della poesia (e in generale dell’arte), il suo tema preferito, la sua forma e il suo contenuto («Nato per conoscere te, Per fare il tuo nome»). La libertà è la condizione prima della creazione (è noto il tema: gli uccelli in gabbia non cantano). L’esaltazione della libertà è anche la sua concreta manifestazione, che ogni opera perfettamente riuscita rappresenta. Là dove la legge della libertà è distrutta la bellezza non si manifesta. Ciò che è servile, calcolato, vile, insincero non è bello. (Per non essere fraintesa: l’insolenza è anch’essa indice di servitù, non meno della pavidità; si veda la Saga in cui il savio Amleto indovina l’umile origine della regina dall’ «insolenza nel suo sguardo»). Nella libertà c’è pace e grande armonia, come ci mostra l’arte. Parole e suoni nel verso, linee e colori nella pittura, insieme quasi fossero più liberi che in una felice unione appaiono più liberi di quando erano ciascuno per conto proprio nel vocabolario, sulla tavolozza. Nella loro unione non sentiamo la più piccola violenza, quasi che essi stessi abbiano scelto di stare insieme.

Negli attuali contesti, come già ho detto, la libertà ha un aspetto prosastico. Non è affatto «l’ultima cosa», non è «l’ultima parola».
La libertà è qui considerata un concetto vuoto e prevalentemente negativo.
Vuoto – in quanto si presume di poter riempire la libertà di ciò che fa comodo e di usarla come fa comodo, nel bene e nel male (si è appena cominciato a parlare della libertà che subito si scivola sulla possibilità di «usarla male» e questo discorso determina rapidamente da qualche parte un corto circuito sulla celebrazione di matrimoni omosessuali: ma si deve permettere anche questo?). Si ricorre a diverse ripartizioni ausiliarie per distinguere la libertà «buona», che va bene, da quella dannosa e inammissibile: si confrontino queste precisazioni come «libertà da» e «libertà per», «libertà» e «arbitrio» ecc. Si ricorre a misurazioni quantitative: «troppa libertà», «libertà, sì , ma con misura». Muovendo da quel significato di «libertà» di cui parla l’arte, dall’»arcano», ossia dalla «arcana libertà», tutto ciò suona più o meno come se si ragionasse così: si può essere «vivi», ma bisogna guardare per che cosa! Oppure: bisogna essere « vivi» con misura, un po’ vivi e per il resto morti. Questa comparazione della libertà con la vita non è sorta in me casualmente: questo, infatti, intende suppergiù il poeta, quando parla di libertà: «la vita». Si può immaginare che «la vita in abbondanza» [Giovanni 10.10] che il Signore ci ha portato, non sia libera? Siamo forse vivi quando non siamo liberi? Il grado estremo di non libertà è la morte. È scritto nei Salmi. Il più alto grado di libertà è la gloria eterna, come disse Dante: l’anima giusta – dice – passa ad aeternae gloriae libertatem, alla libertà della gloria eterna.

La vuotezza di concetti fondamentali (come l’»essere») è la sciagura della Nuova Epoca. Sciagura abituale. Per contrasto S. S. Averinzev (La poetica dell’antica Bisanzio) ricordava il fondamentale significato positivo di queste idee nel pensiero bizantino, come pure nel pensiero cristiano medievale (gli esempi di Averinzev sono spesso tratti da Tommaso d’Aquino) e, generalmente parlando, persino nel pensiero cristiano classico di cui può fruire, ad esempio, anche il nostro contemporaneo Chrìstos Jannaràs. Il significato positivo di «libertà» è incommensurabile con quantità e divisione in tipologie, così come, se si vuole, il significato di «vita» e di «essere».

Da dove è spuntata questa vuotezza, la neutralità dei concetti? Dal fatto che il loro carattere di evento, il prodigio della loro realtà, hanno cessato di essere avvertiti. Il non essere è stato eliminato dall’origine di questo pensiero, che si muove nel presente (nell’esistente), come se questo fosse comprensibile per se stesso. Perciò il non essere, la morte, in agguato attendono questo pensiero ormai alla fine, come un orrore sempre improvviso, come «la principale cura dell’uomo», secondo l’espressione di molti dei più recenti filosofi, che descrivono l’essenza dell’uomo come l’ «essere per la morte». Se esso, il non essere, fosse colto nel pensiero dall’inizio, all’origine e non alla fine, il presente allora sarebbe inteso come un prodigio, come un dono – e susciterebbe una riconoscenza, la quale, sì, sarebbe «la principale cura dell’uomo», l’ «essere dalla morte». Noi, però, abbiamo in qualche modo dimenticato che apparteniamo al non essere non dopo la vita, ma già prima di essa. «Voi siete già risorti quando siete nati e non ve ne siete accorti», come dice l’eroe di B. Pasternak. La vita sorge davanti all’uomo dalla sua impossibilità, anche la libertà sorge dalla sua impossibilità. Se si tiene conto di questo tipo di vuotezza, questi concetti sono colmi.

Dunque, la libertà come concetto negativo. S’intende la libertà come assenza di proibizioni e di limitazioni, l’uscita dalla soggezione a una forza esteriore, estranea all’uomo (anche se, nella sostanza, non a lui nemica). Tuttavia, la libertà, prima di essere un sottrarsi al potere di un altro, è essa stessa un potere. Il potere di essere qualcosa o di fare qualcosa. Nel testo greco del Nuovo Testamento la parola εξουσία può tradursi sia con «libertà», sia con «potere»: «il potere di essere figli di Dio». Il comune denominatore di «potere» e di «libertà» è la «forza». La libertà non è semplicemente il sottrarsi all’azione altrui, a una forza estranea (in tal caso si formerebbe quella vuotezza concettuale, una vuotezza di senso e di energia, di cui si è detto), ma è la forza stessa. La libertà viene prima degli impedimenti che essa deve superare. La libertà viene prima delle condizioni che sembrerebbero determinarla. Se essa è, aggiungiamo: se essa è donata. Le parole di Goethe:

«Meritevole è di vita e libertà
Soltanto chi ogni giorno le segue in battaglia»
3

sono in ogni caso unilaterali. Che tu vada o non vada, se prima non è stata in qualche modo suscitata in te questa luce, la luce della vita e della libertà, non ti è stata data la loro forza, la tua battaglia è perduta a priori. Se essa in realtà è donata e trattenuta, nessuno te la toglierà, come quella gioia che Cristo dà in eredità. Ma del dono parleremo tra poco.

L’idea negativa contemporanea della libertà si manifesta anche su un altro piano, ancora più importante. Si suppone che la limitazione della libertà ci preservi dal compiere azioni negative – biasimevoli, amorali ecc. Accade nella vita «normale», come nel codice penale, che se qualcosa è proibita, allora è male. E perciò in una situazione straordinaria, l’uomo in libertà immancabilmente realizza prima di tutto quei suoi desideri che sono proibiti. Chi può negarlo? Spesso succede proprio così. Noi siamo stati testimoni di come Puškin abbia indovinato, dicendo che se in Russia fosse stata tolta la censura, la prima cosa a essere pubblicata sarebbero stati gli scherzi erotici di Barkov. E così fu, e ben oltre Barkov, fino a quel torrente di «emancipazione» che ha contrassegnato i nostri anni liberali. Quasi che ciò da cui l’uomo da noi è stato liberato fosse tutto, c’erano delle semplicissime norme di convivenza civile ritenute ora puritanesimo e bigotteria.

Tuttavia, la tristezza della vita terrena non sta nel fatto che non ti si permette di realizzare i tuoi desideri nascosti, vergognosi o semplicemente non esemplari. Ma nel fatto che non ti si permette di realizzare il tuo desiderio migliore, «arcano» (nel senso descritto). Il desiderio – per cominciare lo esprimeremo così, con le parole di B. Pasternak:

Ed esser vivo, vivo e basta,
Vivo e basta, fino alla fine4.


Desiderio del vivo, descritto meravigliosamente da A. Schweitzer: «Io sono vita che vuole vivere in una viva cerchia di vita che vuole vivere»5.

Una concezione negativa della libertà deriva da un’antropologia negativa, da una rappresentazione negativa della volontà umana, a cui è appunto legata la volontà. L’antropologia negativa è cosa comune a molte autorevoli teorie del Nuovo tempo, e a essa corrisponde la coscienza comune dei nostri contemporanei. Io muoverò dall’antropologia cristiana. Ciò significa che penso che l’uomo sia creato a immagine e somiglianza di Dio. Capisco che questa frase suoni come le parole della mia nipotina di cinque anni che con serietà diceva: «Ma io penso che bisogna rispettare i genitori». Io, in effetti, così penso. E, di conseguenza, il desiderio primo dell’uomo (non il desiderio psicologico, non la passione ma, per così dire, il desiderio morfologico che informa e organizza la vita, ossia la volontà, il velle, nella terminologia di Dante) è divino. In altra lingua parla di questo Mandel’štam:

Ci è affine solo ciò che è eccessivo6.

Ed ecco che proprio questo desiderio, eccessivo, smisurato, l’uomo non è libero di realizzarlo, sia a motivo dell’organizzazione della società umana (a noi nota come «mondo corrotto») sia a motivo delle nostre caratteristiche peculiari (a noi note come «peccato» e «debolezza»). Anche altre cause, non palesemente negative (quali il conformismo, la dipendenza dall’opinione comune), possono ostacolare la nostra realizzazione di quel desiderio migliore – e anche cose pienamente meritevoli: ad esempio il dovere, la responsabilità nei confronti degli altri, il rispetto delle norme accettate e dell’autorità… E in più c’è anche la necessità. Forse, ciò che con particolare forza si oppone in pratica alla libertà è proprio l’antica Ananke pagana, che dirige sia gli dei olimpici che quelli sotterranei. Dice la necessità: sì, in generale questo è buono, ma non ora. Ora è necessario altro. Mentre invece l’assolutamente buono non è necessario, è eccessivo. Di conseguenza – «Se ne riparlerà più tardi». L’uomo semplicemente non può vivere senza la necessità che lo costringa. Se essa s’indebolisce è lui stesso a cercarla o a inventarla (lo si può vedere nei vecchi, da cui molte necessità si sono distaccate): altrimenti, se non fa «il necessario», non ci sono giustificazioni alla sua vita, non serve, non è «necessario». La paura di restar libero come qualcuno o qualcosa di inutile è un tema distinto, e ora non lo toccherò.

La libertà del comportamento migliore, «lodevole», della pienezza della vita qui e ora, senza occhiate al passato e al futuro è limitata, forse anche a causa del nostro stesso universo, «del vecchio cielo e della vecchia terra», entro i confini del tempo e dello spazio. Ed ecco che qui viene in aiuto lo Spirito nel Quale è la libertà.

Della distinzione del desiderio divino dal desiderio semplicemente «buono» parla l’episodio evangelico della mirra preziosa (Matteo 26, 6-13, Marco 14, 3-9, Luca 7, 36-50, Giovanni 12, 1-8). Un mormorio accompagna quest’azione, – l’assurdo spreco di ciò che avrebbe potuto apportare giovamento ai poveri, che poteva essere usato per «un’opera buona». Ma proprio quest’azione sarà ricordata «ovunque sarà predicato questo Vangelo»: questa è la libertà dell’amore. Nessun’altra cosa è stata onorata da una tale promessa. È l’unica volta, in tutto il corso della narrazione evangelica, in cui viene espressa una nota di questo tipo riguardo a un’azione umana! Proprio dopo queste parole, in due delle quattro narrazioni evangeliche Giuda esce per accordarsi sul prezzo del tradimento. Probabilmente egli pensa di comportarsi «come un uomo onesto» (dai versi di Prigov) che arresta una pericolosa follia.

Ecco, su questo episodio gioisce il cuore dell’artista! Sulla vita piena, visibile qui ed ora, senza un disegno di ciò che avviene prima o dopo, oltre a questo e in qualche altro luogo, su questo unico, immortale «non sempre» – accanto all’abituale e mortale «sempre» («i poveri saranno sempre con voi»). «Non sempre» – ossia «ecco, ora», «proprio ora». «Io non sarò sempre con voi», queste parole mi ricordano la libertà di un altro Consolatore del Quale non si sa «da dove Egli venga e dove vada». Che cosa dirà riguardo a questo luogo il sostenitore di una ragionevole limitazione della libertà? O chi, seguendo Hegel, interpreta la libertà come «la necessità cosciente»? Questo non lo dovrà far gioire troppo.

Per l’uomo (se parliamo dell’uomo come progetto) la libertà di «vivere pienamente», ossia «con abbondanza» nella propria profondità sta nella libertà di donare, nella possibilità di sacrificarsi totalmente.

Finora ho fatto riferimento essenzialmente alla poesia – ma con questo pensavo al cristianesimo. Ritengo che in certi momenti sia bene dare ascolto all’arte come a un’interpretazione (o a una vaga prefigurazione) di alcuni contenuti dell’annuncio cristiano. La libertà è una di queste intuizioni, manifeste specialmente all’arte (e spesso offuscate nell’ordinaria ricezione della Chiesa). Non a caso così spesso gli uomini, forti della propria appartenenza alla chiesa, intendono la libertà come un valore essenzialmente laico, per loro del tutto estrinseco, di cui non vale neppure la pena di parlare seriamente. Obbedienza, senso della propria peccaminosità e pio timore, ecco gli elementi sacri di questa religiosità. Per essa il sacro della libertà (come anche il sacro della bellezza) appartengono a un’altra fede. Un «Intelletto libero» è qui inteso come un intelletto svincolato da qualsiasi dottrina.

Se abbiamo ben presente la sinfonia biblica, ci accorgiamo che le parole «libertà», «libero» non sono troppo frequenti nelle Sacre Scritture. Esse sono usate in alcuni luoghi più importanti, ma di per sé pare che siano assai poco analizzate. Non incontriamo inni alla libertà come gli inni dei Salmi alla Misericordia e alla Giustizia (equità), come gli inni alla Sapienza nell’Ecclesiastico – e come gli inni all’Amore dell’apostolo Paolo. Tuttavia, più che il lessico, il tema della libertà è profondamente sotteso: esso è racchiuso proprio nella «trama», nella storia stessa, narrata dalle Scritture. È questo, infatti, il racconto della liberazione. Che cosa significa, in effetti, la Pasqua dell’Antico Testamento? Una volta, a Gerusalemme lo scrittore israeliano Iosef Bar-Iosef mi chiese: «Noi nella Pasqua festeggiamo la liberazione dalla schiavitù egizia, e voi che liberazione festeggiate?». «Dalla morte – risposi, dopo un istante di riflessione – dal peccato, da questo mondo». Ed egli replicò, interessato: «Ah, è così? Ma voi in realtà non vi ci trovate ancora?», «Really? And you are outside now?» [Davvero? E ora ne siete fuori?»]. Come potete immaginare a me non restò altro che sospirare. Ecco…, dico, non del tutto, ma in genere ci è permesso…onestamente parlando, ci è perfino ordinato… e poi, anche quelli che sono usciti dall’Egitto la libertà non l’hanno raggiunta, sono morti tutti nel deserto…

Nei libri profetici il Messia è atteso come colui che condurrà fuori di prigione i reclusi, che libererà i prigionieri, che li riprenderà al nemico o li riscatterà dalla prigionia. Abitualmente noi pensiamo questa figura, e ciò che compie, soprattutto in relazione all’episodio della Discesa all’inferno, con la rottura delle catene e la liberazione delle anime dalla prigionia. Così dicono i Canti liturgici: Cristo «ha vinto la prigionia», «vincitore, con la tua morte, del regno infernale». Ma la liberazione di Adamo propone anche altro. Queste sono liberazioni vive, riscattate a caro prezzo dalla schiavitù al nemico. «Le Passioni risolutive (liberatrici)», come dice il canto liturgico sulle Passioni di Cristo, non ci liberano dopo la nostra morte! Il dono non soltanto della libertà, ma del potere di liberare l’uomo, è trasmesso agli Apostoli e costituisce l’opera della Chiesa.

La liberazione che con ciò avviene non deve essere limitata alla forma dell’affrancamento dalla prigionia, dal carcere, allo scioglimento delle catene. Per permettere all’uomo di raddrizzarsi liberamente (come quella donna rattrappita) e camminare (come lo zoppo, guarito dall’apostolo Pietro), questi deve essere liberato dalla sua assenza di libertà interiore, a cui lo condannano la deformità e la malattia. Qui libertà ha il significato di guarigione del malato, o addirittura di creazione di una nuova salute, come nel caso del cieco dalla nascita. L’uomo deve essere liberato dal proprio passato (e quel passato che ci tiene prigionieri si forma molto presto; si presume che già un bambino di otto anni debba liberarsi di qualcosa con la confessione). Egli deve essere liberato dal mondo in cui è nato, con le sue leggi fisiche, sociali eccetera. Ciò significa che la liberazione presuppone la creazione di qualcosa di nuovo. In una nuova terra, sotto un nuovo cielo opera, appunto, la perfetta libertà. Probabilmente soltanto là essa opera pienamente. Per questo ho intitolato la mia relazione «la libertà come realtà escatologica». Ma il baluginare di questo nuovo cielo e nuova terra, come sappiamo, non traduce interamente questo mondo della morte sconfitta, nell’»altro mondo». La sua possibilità qui costituisce appunto la buona novella.

Se ci è capitato di vedere atti simili a quello della donna con la mirra di nardo, li abbiamo percepiti, anche se avvenuti qui, come se non fossero di qui. Essi lacerano «questo mondo». Non si deve dimenticarli, perché in essi non c’è morte. Essi sono «le ultime cose», dopo le quali non c’è altro. Il problema dell’atteggiamento della Chiesa nei loro confronti è se debbano essere considerati eccesso, sovrabbondanza, mentre la vita «semplicemente» devota debba essere considerata la cosa necessaria. O al contrario, se si debba regolare tutto su di essi come il solo esatto diapason. Eppure gli uomini di Chiesa sono chiamati non ad astenersi dal male, ma prima di tutto a non evitare ciò che è meglio, ciò che è insensato agli occhi dell’uomo di «questo mondo», anche a quelli «dell’uomo onesto». Senza «la vita futura» qui e ora, senza il baluginare della sua nuova creazione, il mondo procede verso la morte termica.

1 Sono immagini che compaiono nei versi per brevità non riportati.

2 A. Puškin: Svobody sejatel’ pustynnyj (1823), Ptička (1823), K N. Ja. Pljuskovoj (1818). A. Blok: Puškinskomu Domu (1921), O, ja choču bezumno žit’; O. Mandel’štam: O svobode nebyvaloj (1915). M. S. Petrovych: Zaveščanie (Otryvok). Brodskij Piazza Matei 1981.

3 “Nur der verdient sich Freiheit wie das Leben, Der täglich sie erobern muss” (Faust, parte II, atto V).

4 Da Byt’ znamenitym nekrasivo (1956).

5 "Ich bin Leben, das leben will, inmitten von Leben, das leben will" da A. Schweitzer, Aus meinem Leben und Denken.

6 O. Mandel’štam, Stichi o neizvestnom soldate.

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