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INTERVISTA
L'epifania della Bellezza.
Appello del papa agli artisti
La Lettera di Giovanni Paolo II agli artisti del 4 aprile 1999, giorno di Pasqua, si apre con un versetto esultante del Libro della Genesi: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gen 1,31).

E impressionante pensare che il primate della Chiesa cattolica abbia ricordato gli artisti, gli artisti laici di oggi, in un giorno come questo e a partire da parole come queste. Forse mai prima d'ora in duemila anni di storia del cristianesimo la creatività artistica ha ottenuto una così alta manifestazione di stima da parte della Chiesa. Un'osservazione: nel documento non si parla della cultura in quanto tale. Oggi, purtroppo, per «cultura» si intende di solito un corredo già predisposto, quasi un deposito di «monumenti», di cui si pud essere «conservatori», classificatori, ricercatori, utenti, se non addirittura «distruttori» e revisori. Qui si parla, invece, della creatività vera e propria, della «vena» artistica, di «nuove epifanie» della bellezza. Ossia proprio di quella fonte, personale ed extrapersonale al tempo stesso, da cui scaturiscono «gli oggetti dell'arte», «gli oggetti della cultura». Nell'uso comune «creatività» e «cultura» sono due realtà quasi contrapposte. L'«uomo di cultura», e soprattutto di una cultura tarda come la nostra di oggi, di regola guarda con scetticismo alia possibilità di una nuova creatività. «È già stato detto tanto, praticamente tutto! Cos'altro possono aggiungere a questa enorme somma i nostri miseri contemporanei?»: questa è press'a poco la posizione «degli eredi e dei depositari della cultura». Nessuno sembra più mettere in dubbio che il nostra tempo sia povero, misero e che abbia in qualche modo rinunciato a emulare le grandi epoche precedenti. Si parte dall'indigenza, da una strana stanchezza della fantasia e dall'esaurimento delle forme come da un semplice dato di fatto oggettivo, per muoversi, poi, in varie direzioni. Ma anche in epoche che non si riconoscevano così povere non mancavano i conflitti tra cultura e creatività. Infatti, I'apparire di una nuova ispirazione scuote tutto ciò che è presente e tutto il passato, talvolta li scuote in modo molto drastico, il che comporta sempre un elemento di rischio, e a uno sguardo superficiale può apparire come una distruzione. I mutamenti e le abolizioni saltano all'occhio innanzitutto perché ciò che si conserva e continua in un'esperienza autenticamente nuova non è la storia delle forme e dei monumenti, ma la storia dell'ispirazione umana.

Leggendo la Lettera, mi pare che sia proprio l’ispirazione uno dei temi centrali delle riflessioni di Giovanni Paolo II sull'arte. II messaggio è rivolto innanzitutto a chi cerca l'«epifania»1 della bellezza. Solo in un secondo tempo si parla dell'artista come dell'«artefice»2 di un'opera, che egli ricava da questa esperienza che non è stato lui a suscitare. Infine l'artista è definito come un uomo che fa dono della propria opera al mondo. Nella prima definizione di «artista» sono racchiuse la causa e la fonte della creatività, nella terza il suo obiettivo e la sua intenzione.

Fra due atti gratuiti

II lavoro dell'artista si colloca propriamente fra due atti gratuiti: l'ispirazione come dono che riceve dall'alto, e l'opera compiuta, di cui fa dono al mondo. L'artista appare come un artefice che produce da un dono, un altro dono. Nelle discussioni sull'arte «per addetti ai lavori», di solito sia il primo che il terzo atto, cioè la causa e il fine dell'arte, non vengono toccati. Invece, il modo in cui il papa amplia l'oggetto, cambia il punto di vista sia sulla fase intermedia, quella «del lavoro», che sull'opera d'arte e sull'autore.

All'ispirazione sono legati altri due importantissimi temi della Lettera: quello della bellezza e quello del mistero (del sacramento). II fondamento misterioso del mondo, la profondità arcana delle cose e dell'uomo, il sacramento in senso ecclesiale come manifestazione della Salvezza nella sua forza reale: è questo lo spazio in cui si muove il pensiero di Giovanni Paolo II sulla creatività e sull'uomo creativo.

In effetti, solo chi conosce la creatività per esperienza personale può scegliere questa prospettiva: lo dice Giovanni Paolo II all'inizio del suo appello, parlando di sé. Gli storici e i teorici dell'arte, i critici e gli estimatori metterebbero al centro, come preoccupazione principale dell'artista, le tendenze generali, le proprietà della forma e gli «oggetti dell'arte». Ma della sproporzione sostanziale che esiste tra qualsiasi opera compiuta, per quanto riuscita essa sia, e il primo lampo di genio, può parlare solo chi ne ha fatto esperienza! Gli artisti, scrive Giovanni Paolo II, sanno «che quanto essi riescono ad esprimere in ciò che dipingono, scolpiscono, creano, non è che un barlume di quello splendore che è balenato per qualche istante davanti agli occhi del loro spirito...»3. E più avanti: «Nessuno più del vero artista è pronto a riconoscere il suo limite»4, proprio perche ha un modello con cui paragonarsi e sa quale abisso vi sia tra l'ispirazione, che gli e stata donata come disegno divino, e la sua esecuzione. A questo punto, quando «l'intuizione va oltre ciò che percepiscono i sensi», per Giovanni Paolo II l'esperienza dell'arte e l'esperienza della fede diventano affini.

L'arte come problema antropologico

La concezione dell'arte come fenomeno della vita interiore, come creatività e non come produzione di «oggetti estetici» (applicazione di determinate leggi estetiche, «riverherazione della realtà», gioco o attività socialmente utile), distingue la posizione di Giovanni Paolo II dagli approcci oggi diffusi sia tra i critici laici, che, probabilmente, tra quelli cristiani. Così vede le cose il papa, poeta, mistico e pastore, per il quale l'artista non è homo faber, ma semplicemente homo e, in un certo senso, l'uomo per eccellenza. II problema dell'arte appare, quindi, come un problema antropologico.

Si può dire che con il suo messaggio Giovanni Paolo II benedica, forse per la prima volta nella storia del cristianesimo, quella stessa fonte della creatività che nel linguaggio tradizionale della poesia europea veniva chiamata Ippocrene5, «ispirazione delle Muse» e con altri nomi pagani. II papa la chiama «epifania», rivelazione «della bellezza» e anche «momento di grazia»: in questo caso, si dice nella Lettera, «si può parlare giustamente, se pure analogicamente, di "momenti di grazia", perche l'essere umano ha la possibilità di fare una qualche esperienza dell'Assoluto che lo trascende»6.

L'autore non intende solo l'arte propriamente cristiana concepita come arte canonica, ecclesiastica, oppure come arte prodotta da cristiani, o su argomenti cristiani7. II tema della Lettera non è propriamente l'arte cristiana. Ogni vera arte, per Giovanni Paolo II, apre una breccia nella quotidianità e, liberando l'uomo dalle «sollecitudini mondane», ci porta sulla soglia del mistero, ci fa inchinare davanti a una profondità misteriosa; l'arte è «per sua natura, una sorta di appello al Mistero»8: al mistero della Creazione e al mistero dell'uomo, alla «misteriosa unità delle cose»9. In queste parole riconosciamo uno dei temi principali del pensiero religioso russo: quello degli slavofili del XIX secolo, di Vjačeslav Ivanov, di Nikolaj Berdjaev, di Vladimir Solov'ev e di padre Pavel Florenskij. Nella vocazione all'arte Giovanni Paolo II vede un'analogia con il servizio profetico. Come osserva un teologo cattolico10 commentando la Lettera, proprio qui sta l'originalità della posizione di Giovanni Paolo II, «poeta e mistico», rispetto ad altri appelli, non meno cordiali e ricchi di inviti alia collahorazione, che la Chiesa cattolica ha rivolto agli artisti negli ultimi decenni11. Gli appelli precedenti della Chiesa cattolica agli artisti erano concentrati sull'aspetto pastorale del servizio artistico. II lavoro dell'artista consola ed eleva, si contrappone alla forza distruttrice del tempo e unisce vivi e morti, secondo una stupenda espressione del Concilio Vaticano II: la creazione artistica «resiste all'usura del tempo, unisce le generazioni e le congiunge nell'ammirazione»12.

La Lettera di Giovanni Paolo II tocca anche questi aspetti, il servizio sociale e storico dell'arte. Ma il suo nucleo è senza dubbio lo stesso avvenimento dell'ispirazione, il momento dell'«epifania della bellezza», «una sorta di illuminazione interiore», l'incontro dello «Spirito creatore con il genio dell'uomo»13.

«Lo Spirito è artista»

Probabilmente mai prima d'ora l'ispirazione artistica in sé, indipendentemente dal «materiale» con cui l'artista lavora, aveva ricevuto una giustificazione religiosa di così grande portata per bocca di un pastore della cristianità. Noi in Russia conosciamo bene l’atteggiamento cauto (per non dir di più) della Chiesa verso la creatività personale e verso lo «spirito» di cui essa si nutre: un atteggiamento che troviamo espresso, tra l'altro, nelle opere di padre Pavel Florenskij. Conosciamo l'ostilità verso gli esercizi laici su tematiche religiose, documentata, ad esempio, dalla critica di sant'Ignatij Brjančaninov all'ode Dio di Deržavin. Nella Lettera di Giovanni Paolo II troviamo una fiducia incondizionata nella sorgente religiosa dell'arte: «Lo Spirito è il misterioso artista dell'universo. Nella prospettiva del terzo millennio, vorrei augurare a tutti gli artisti di poter ricevere in abbondanza il dono di quelle ispirazioni creative da cui prende inizio ogni autentica opera d'arte»14. «Lo Spirito è artista», afferma papa Giovanni Paolo II sulla scorta delle Sacre Scritture e degli inni liturgici. Nello slavo antico troviamo in questo contesto la parola vsechitrec, cioè «artefice di tutto».

II Dio di Giovanni Paolo II è «Creatore della grande poesia», come scrisse nel libera linguaggio della lirica Karol Wojtyla in un suo componimento giovanile:

«Loda, anima mia, il tuo Dio,
Signore onnimisericordioso
della Poesia».
Magnificat, 1930

È naturale ricordare che la parola Tvorec, Creatore, traduce in slavo antico il termine greco poetes, mentre le stesse parole «poeta» e «poesia» nella lingua russa si collocano troppo lontano da quella che è considerata la sfera «religiosa».

Siamo abituati a pensare (l'autrice di queste righe non meno di chiunque altro), che laddove risuonano il salterio e la cetra di Davide, debbano tacere la lira di Apollo e il flauto di Dioniso. Questa abitudine a distinguere porta anche a dimenticare facilmente che il salterio, la cetra, i timpani e i cembali erano veri strumenti musicali e non metafore come nell'oratoria barocca. Producevano un suono assolutamente reale e il timbro di questo suono, come si può constatare dai versi introduttivi dei salmi, non era indifferente al loro autore, che aveva in mente anche l'orchestrazione15.

Abbiamo tracciato una linea di demarcazione così netta fra il sacro e il profano attraverso strumenti e generi, colori e linee, ritmi e suoni... L'arte laica, tutta l'arte laica, è rimasta al di là di questa linea, nella pianura del profano, e non è ancora il peggio che le potesse capitare: spesso siamo stati pronti a sprofondarla nel baratro del demoniaco.

L'apologia del servizio alla bellezza, alla bellezza salvifica, come afferma Giovanni Paolo II sulla scorta di Dostoevskij, è il pensiero centrale del messaggio. Alla creatività artistica viene conferita la dignità suprema: proprio qui, stando alle parole della Lettera, si realizza il disegno di Dio sull'uomo, qui «l'uomo si rivela più che mai "immagine di Dio"»16, immagine del Creatore; infine, l'Incarnazione svela all'artista il dono «di una nuova bellezza».

II momento dell'ispirazione prende il nome di «epifania (teofania) della bellezza», e il frutto dell'ispirazione, l'opera, testimonia «l'universale attesa di redenzione»,17 anche se il suo tema immediato, il «soggetto», fossero il male e il vizio.

Dove sono i veri artisti?

Così la Lettera di Giovanni Paolo II è rivolta a uomini che «con appassionata dedizione cercano nuove "epifanie" della bellezza, per farne dono al mondo nella creazione artistica»18. A questo punto sorge inevitabilmente una domanda dolorosa: ma dove sono questi uomini? Sì, il vero artista è tutto questo, ma non è stata proprio la nostra epoca, per bocca delle sue numerose autorità, a mettere in dubbio la possibilità di generare simili artisti (è famoso lo slogan «morte dell'autore»), la possibilità stessa di distinguere tra «autentico» e «falso» (il famigerato «simulacro»), tra il talento e la sua assenza, tra il pezzo unico e quello fatto in serie? Non si è forse negato qualsiasi contatto con l'«altro», mentre l'ispirazione classica è sempre stata descritta come il manifestarsi dell'«altro»? E poi, oggi, chi pensa che lo scopo dell'arte sia quello di «farne dono» al mondo, chi pensa a donare invece che a lanciare sfide o a realizzare se stesso? Beethoven avrebbe senza dubbio fatto proprie queste parole: rivelare la bellezza, dedicarsi ad essa appassionatamente, fame dono all'umanità. Ma gli artisti contemporanei si riconoscono in questa descrizione? Non collegano questa immagine di uomo creativo a un romanticismo ormai superato? È cosi che vedono la propria vocazione, se di «vocazione» si può parlare nel contesto ipercritico e smitizzante dei nostri tempi? Possono, dunque, fare proprio questo messaggio pasquale? Passo in rassegna mentalmente i maestri indiscussi dell'arte moderna, i suoi protagonisti più eminenti: chi di loro accetterebbe di definirsi servitore della bellezza? Per chi di loro cose come la bellezza, l'ispirazione, il talento e la creatività sono ancora, ultimamente, reali? E se non vedono in questo il fine del proprio lavoro, dove lo vedono, allora? Affiorano subito alla mente le motivazioni più diffuse dell'attività estetica: servire la lingua, obiettivo per altro considerato ormai un po' conservatore; distruggere vecchi miti e illusioni; denunciare la menzogna e il male, realizzare effetti di «straniamento», sostenere un progetto sociale; esprimersi e fare autoterapia; liberarsi dai traumi personali19, scandalizzare e provocare, scioccare il pubblico, affermarsi come «artista»... Questa pare sia tutta la gamma delle possibilità che oggi si presentano all'artista. La Russia, nelle sue condizioni attuali, aggiunge all'elenco una variante «positiva»: il servizio alla patria. Ma nessuna delle motivazioni elencate ha qualcosa in comune con l'«epifania della bellezza». Non è sorprendente?

Un ispirato difensore dell'arte

La bellezza, che un tempo ci sarebbe toccato difendere da una certa concezione religiosa moralistica o ascetica, trova oggi nel primate della Chiesa cattolica un paladino ispirato, mentre i primi a negarla e a umiliarla sono proprio i maestri dell'arte contemporanea, gli artisti più radicalmente laici. La bellezza, che confondono irrimediabilmente con l'«attrattiva», di fatto è inaccessibile all'artista che spera di essere «moderno».

Giovanni Paolo II giustifica e celebra con la massima determinazione proprio quella libera creatività che ha sollevato e continua a sollevare, almeno sulla nostra stampa religiosa, seri dubbi sulla propria qualità spirituale. Gli artisti e i teorici dell'arte contemporanei, invece, non si stancano di affermare l'illusorietà del significato artistico.

Possiamo osservare lo stesso capovolgimento anche per quanto riguarda il talento, la vocazione dell'artista e altri elementi tradizionali della «fede del Parnaso». Forse mai prima d'ora l'arte nella sua prassi si era allontanata tanto dalle sue forme e dai suoi compiti tradizionali.

Nel dire «tradizionali», mi rendo conto che l'elemento tradizionale dell'arte europea è sempre stato, almeno fin dai tempi di Dante, una tradizionalità problematica e che l'anelito a superare i predecessori o, in termini moderni, «la paura di lasciarsi influenzare», la tensione verso ciò che è nuovo, migliore, e «personale» hanno preso nettamente il sopravvento sulla passione per la continuità semplice e rispettosa. Ma proprio il fatto che la problematicità della successione è andata perduta e che il moto di ripulsa per ciò che è presente ha cambiato direzione («ripetere, ma con più velocita, con più ardore», secondo le parole di Pasternak), ha determinate, a mio avviso, la profonda mancanza di tradizione che caratterizza la creatività di oggi. In ogni caso, nella versione radicale del postmodemismo (negli ultimi vent'anni proprio gli artisti postmoderni si sono presentati come i veri professionisti «della modernità», emarginando o considerando gli altri come dilettanti), l'arte rifiuta senza problemi la tradizionale sete di novità, la possibilità stessa del nuovo, rifiuta la creatività come immagine della vita, considerandola piuttosto come una produzione di oggetti estetici o, più propriamente, di antioggetti inestetici. E il vettore della repulsione per il passato non si muove più «verso l'alto» e «in avanti», «con più velocità e più ardore», ma esattamente al contrario: all'«umile» riconoscimento che l'uomo, la storia, tutte le forme di cultura e tutti i significati si sono esauriti e a noi, «siccome è già stato detto tutto», non resta che destrutturarli. Proprio nell'attuale situazione di quasi totale scetticismo verso il «talento», «l'ispirazione» e la «bellezza», doveva risuonare dai Vaticano un appello pieno di fede tradizionale nella possibilità dell'arte e nella forza misteriosa della bellezza.

La «stupenda materia» dell'«io»

Dai tempi dell'umanesimo e del Rinascimento la creatività, in particolare quella artistica, ha rappresentato una sorta di «religione parallela», di «culto laico» con i suoi «asceti», i suoi «santi» e i suoi «martiri» che, come Chopin o Puškin, van Gogh o Michelangelo, avevano un posto del tutto particolare nel cuore del singolo e di tutto il popolo. Li si amava di un amore diverso, ma non meno intimo di quello per i grandi santi che intercedono per gli uomini. Davanti agli artisti non si pregava, ma essi ci venivano incontro con armonie, strofe e forme, dilatando il regno della libertà e della gratuità nel mondo prosaico della necessità e del calcolo. Le loro opere hanno portato in un mondo freddo il calore della patria. Infine la vita dell'artista, come appariva nelle sue opere, era un esempio di vita sincera, aperta, anche nelle sue debolezze e nei suoi errori: quasi un'immagine escatologica della vita. E questa sincerità possibile solo nell'arte, la coincidenza dell'uomo con se stesso e il cambiamento di sé erano cari, a chi amava l'arte, come la purezza dei santi. Siamo testimoni che l'arte stessa, nella persona dei suoi protagonisti e teorici, ha sostituito alia «fede del Parnaso» l'«ateismo del Parnaso». Gli stessi poeti affermano con «umiltà» e fatalismo che «la poesia è morta», che ha «abbandonato la nostra civiltà». È difficile valutare appieno la portata e le conseguenze di questa rinuncia: tanto per l'arte, quanto per la società che per la singola persona. Ormai abbiamo una certa esperienza di cosa sia una «società postcristiana», ma fa paura immaginarsi come sarà la società dell'assoluta «post-ispirazione». Non ci resta che meditare sulle cause di questo fallimento. Ma forse è innanzitutto la sfiducia dell'arte nel proprio valore «sacro» e nella propria profondità misteriosa, ciò che le impedisce oggi di dialogare, come ha auspicato Giovanni Paolo II, e di incontrare la fede vissuta e la Chiesa. Eppure proprio nel XX secolo, nell'epoca della «grande apostasia» della società europea, gli artisti più ispirati sono tornati al mondo delle «cose ultime» della fede cristiana con naturale semplicità. Con la stessa naturalezza con cui, secondo le parole di Dante, il fuoco sale verso l'alto e l'acqua scende. Un'ispirazione si è fusa con l'altra, come si dice nel titolo di una delle Cinque grandi odi di Paul Claudel: «la Musa, che è grazia». L'«io» dolorante, traumatizzato, problematico e chiuso ermeticamente in se stesso dell'artista postmoderno non sente alcuna attrazione per questa altezza e per questa profondità.

Uno dei punti più straordinari della Lettera è legato alia prospettiva antropologica dell'arte, da cui siamo partiti. Forse è questa la chiave per capire di cosa si priva l'arte, quando cessa di sperare nell'«epifania della bellezza», pur continuando a produrre «oggetti estetici». Nel primo capitolo della Lettera, il papa esamina la differenza sostanziale tra la Creazione divina e la creatività umana, dove quest'ultima è intesa come creazione non «dal nulla», ma da qualcosa «di già preesistente». A partire da queste riflessioni, Giovanni Paolo II così definisce la materia «che già esiste» e con la quale l'uomo-artista lavora: «[Egli] realizza questo compito prima di tutto plasmando la stupenda "materia" della propria umanità»20. Prima delle parole, dei suoni o dei colori, considerati il «materiale» vero e proprio delle singole arti, l'artista prende in mano la materia originaria: l'umanità, la propria natura umana! L'artista trova o libera in sé, secondo le parole di Simone Weil, «quell'"io" che nella cultura laica si esprime attraverso la poesia». L'io è la materia dell'umano più intimamente legata all'ammirazione e allo stupore, all'admiratio. Poeti così diversi come Friedrich Hölderlin e Osip Mandel'štam hanno insistito anche su un'altra qualità dell'«io» poetico: la sua momentanea innocenza, la sua facoltà di tornare alla purezza originale del paradiso attraverso il canto.

Le celebri parole «dopo Auschwitz è diventato indecente fare poesia», che fanno da leitmotiv del panorama culturale più recente, negano appunto che sia possibile liberarsi dalla colpa, la quale è inconciliabile con la libera ispirazione. Il silenzio della poesia e, in generale, della creatività nella cultura attuale ci dicono né più né meno che l'«io», «stupenda "materia" dell'umanità», è andato perduto. Paul Celan ha espresso questo concetto molto semplicemente: «Non ci sono uomini, quindi non ci sono neppure poesie». Perciò, penso che all'ultima domanda della Lettera, «L'arte ha bisogno della Chiesa?»21, si dovrebbe senz'altro rispondere affermativamente. Molto probabilmente nella cultura del nostro tempo, del tutto secolarizzata, non resta altro mezzo per ricostituire questa «stupenda "materia"», questo «io» che, sciolto dall'oppressione della colpa, possa esprimersi in libera creatività. Per far questo la Chiesa deve rendersi visibile non come istituzione, struttura o ideologia, ma come il «grande cuore della santità», pieno di attrattiva infinita, come il «luogo che risana», secondo le parole di Rilke. Lo stesso Giovanni Paolo II con la sua grande vita, della quale fa parte anche la Lettera agli artisti, rivela la possibilità di questa visione.
Torniamo all'inizio del messaggio. Qui la Pasqua appare come il giorno in cui si medita sulla Creazione e sulla creatività: è una straordinaria coincidenza del pensiero teologico con l'intuizione artistica del poeta. La Creazione come Resurrezione è anche il pensiero prediletto é ricorrente di Boris Pasternak: «Ecco, voi vi preoccupate se risorgerete o meno, mentre siete già risorta, senza accorgervene, quando siete nata»22.


1 Giovanni Paolo II, Lettera agli artisti, «La Traccia» n. 4, maggio 1999, p. 333/IV.

2 Ibidem.

3 Ibidem, p. 335/IV.

4 Ibidem.

5 La fonte delle muse sul monte Elicona. ndt

6 Ibidem, p. 340/IV.

7 Proprio qui, evidentemente, sta la differenza fra la tradizione occidentale e quella ortodossa. La seconda tende a contrapporre categoricamente gli affreschi vaticani di Raffaello e di Michelangelo alla pittura di icone, piuttosto che a unire l'una e l'altra espressione pittorica sotto la definizione comune di «arte cristiana». Tuttavia, leggendo attentamente la Lettera, si può notare che per Giovanni Paolo II solo l'icona può essere paragonata ai Sacramenti della Chiesa: «...l'icona è un sacramento: analogamente, infatti, a quanto avviene nei Sacramenti, essa rende presente il mistero dell'Incarnazione nell'uno e nell'altro suo aspetto» (Giovanni Paolo II, Lettera agli artisti, ext., p. 337/IV).

8 Ibidem, cit., p. 338/IV.

9 Ibidem, p. 335/IV.

10 Mahieu, nella prefazione alia Lettera afferma: «Se Paolo VI insiste sulla dimensione sacerdotale della vocazione artistica, Giovanni Paolo II si sofferma sul suo carattere profetico».

11 Nel presente documemo vengono riportate citazioni dalle costituzioni del Concilio Vaticano II e dall’ Appello agli artisti di Papa Paolo VI, con cui la lettera di Giovani Paolo II si concepisce in continuità.

12 Paolo VI, I messaggi della Chiesa al mondo, in: Tutti i documenti del Concilio, Milano 1969, p. 556.

13 Lettera agli artisti, cit., p. 340/14.

14 Ibidem.

15 A proposito di strumenti musicali, mi permetto una digressione personale. Una volta ho acquistato un pianoforte e mia nonna, donna profondamente credente e non molto istruita (tutto quel che sapeva l'aveva imparato alla scuola parrocchiale), mi ha detto: «Complimenti! Adesso loderai Dio sul pianoforte!». Come lettrice di Florenskij, ho replicato meravigliata: «Ma cosa dici! Come posso lodare Dio con uno strumento mondano!». La nonna mi ha risposto tranquillamente: «Se a quel tempo ci fossero stati i pianoforti, il salmista avrehbe scritto: "Lodatelo sulle corde, sull'organo e sul pianoforte!"».

16 Lettera, cit., p. 333/IV.

17 Ibidem, P. 338/IV.

18 Ibidem, p. 333/IV.

19 Tra 1'altro, l'idea della creatività come «confessione», come impegno a mettere a nudo di fronte al mondo «le deviazioni» della propria anima, è dovuta al fatto che la pratica della confessione va scomparendo: viene sottoposto all'attenzione pubblica ciò che sarebbe stato opportuno dire e che avrebbe trovato soluzione e compimento in un dialogo con il confessore. Ma il pubblico non ha il potere di rimettere i peccati. Inoltre, abituato com'è alle autoaccuse come atto artistico, non comprende più il coraggio disperato che dà dignità a questo gesto.

20 Lettera agli artisti, cit., p. 333/IV.

21 Ibidem, p.339/IV.

22 Boris Pasternak, Il dottor Živago, Milano 1978, p.57.
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