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Totus tuus
L A N U O V A E U R O P A 3 • 2 0 0 5
Le prime parole con cui il neoeletto papa Giovanni Paolo II si rivolse alla folla, furono «Non abbiate paura!». Questo appello, che nelle Sacre Scritture viene rivolto agli uomini da angeli e profeti (prima di annunziare loro la visita del Signore), è il tema centrale del suo pontificato. Il Papa descriveva la civiltà odierna come la civiltà della paura: come un carcere di innumerevoli paure, di un panico trattenuto nell’inconscio, che determina il comportamento, lo stato, le espressioni dell’uomo contemporaneo. Raddrizzarsi, liberarsi, rincuorarsi, recuperare la propria dignità originaria, la dignità di creatura amata da Dio: ecco, in questo egli vedeva l’effetto dell’annuncio evangelico, che gridava al mondo con tutte le sue forze (e negli ultimi anni, con forze ormai sovrumane, vincendo la propria sofferenza fisica). «Mostrare al mondo Dio, chiaro come il sole», ripeteva citando il suo poeta polacco preferito. Mostrarlo come Amore senza limite, in cui solo è riposta la salvezza da timori e schiavitù. Come la Verità che libera. Come la Novità senza fine, accanto a cui le rumorose novità del progresso appaiono decrepite. Nella sua persona si avvertiva questa suprema impavidità: di fronte a opinioni e giudizi, di fronte a molte asserzioni assodate e ritenute incontrovertibili, di fronte alle richieste di «rinnovare» la tradizione a qualunque costo. Non aveva paura di ciò che nel mondo viene ritenuto un’umiliazione: chiedere perdono, esprimere gratitudine, servire l’altro e perdonarlo. Non aveva nessuna paura di essere un «discepolo di Cristo» (come si era definito una volta).

La civiltà della paura e della disperazione, che prende la forma di un cinismo generalizzato, era appunto il mondo a cui si rivolgeva, esortando i contemporanei ad avere il coraggio di sperare.

Tutti quelli che hanno avuto modo di vederlo e di ascoltarlo (e sono milioni in tutti i continenti), gli si sono affezionati, ma solo pochissimi gli hanno obbedito. In Irlanda (dov’ero stata poco tempo dopo la sia visita), mi hanno raccontato che c’erano folle in ginocchio e con le lacrime agli occhi ad ascoltare le sue parole sulla necessità di pace e di perdono, ma non appena se n’era andato gli atti terroristici dell’IRA erano subito ricominciati. Le sue proposte per risolvere conflitti d’ogni genere (non solo politici e religiosi, ma anche i vecchi contrasti tra fede e ragione, Chiesa e libera creatività) sono rimaste in gran parte inascoltate. L’«anno di grazia», il «cambiamento della faccia della terra» che il primo Papa slavo voleva proclamare, sulla nostra terra, come vediamo, non si è compiuto. Per lo meno, in modo visibile. Il suo messaggero e testimone Giovanni Paolo II, con il passare degli anni è stato sempre più segnato dall’impronta del martirio. Ma, «guai a me, se non predico!», ripeteva insieme a san Paolo.

L’ultimo libro storico della Scrittura, Gli atti degli apostoli, è aperto, incompiuto. Giovanni Paolo II vedeva la propria vita come un proseguimento di questo libro, nel senso più immediato e inequivocabile della parola. Si sentiva uno di loro, vicino, vicinissimo al Principio. Era un sentimento misterioso, il suo, nutrito di preghiera. Come spiegare altrimenti l’amore che provava per ogni persona, per ogni creatura? Era un amore che scaturiva di lì.

Era un poeta, un teologo, un filosofo. Difendeva ispirazione e bellezza mentre i «liberi artisti» le mettevano in croce, proclamando la «morte dell’autore», la «morte della lettera» e molte altre morti ancora. Difendeva la ragione mentre i pensatori contemporanei avevano smesso quasi all’unanimità di credere nelle sue potenzialità. Parlava della creatività culturale come della massima realizzazione dell’uomo, mentre gli «operatori culturali» vedevano nella cultura e nella lingua solo una «struttura repressiva». «Continuiamo a sperare che la bellezza salverà il mondo, come ha detto Dostoevskij!», mi aveva detto salutandomi alla fine di un incontro. Amava la cultura russa e la conosceva in profondità. Nelle sue encicliche si incontrano citazioni di poeti, prosatori, pensatori russi (Chomjakov e Solov’ëv, padre Pavel Florenskij, padre Sergij Bulgakov, Vjacˇeslav Ivanov). Lo affascinava la tradizione ortodossa, ed egli esortava i fedeli ad approfondirne la bellezza e la ricchezza (una serie di encicliche è dedicata a questo tema, e il testo chiave è la Lettera apostolica Orientale lumen, un’entusiastica e fine descrizione di alcune caratteristiche fondamentali del cristianesimo orientale). Aveva studiato la «preghiera del cuore». Venerava le icone bizantine e pregava davanti a un’icona della Madre di Dio di Kazan’, che – come disse lui stesso – gli aveva salvato la vita dopo l’attentato. L’ha donata alla Chiesa russa l’anno scorso. Io che ho visto il Papa pregare davanti a quest’icona, posso affermare che ha donato la cosa che gli era più cara. Come sia stata accolta, non voglio ricordarlo in questi giorni del supremo addio. Come abbia risposto la Russia al suo affetto e alla sua magnanimità, c’è da provare amarezza e vergogna a pensarci.

Ho già detto che Giovanni Paolo II aveva il dono di infondere speranza e baldanza a chi lo incontrava. Lo so per esperienza, perché ho avuto per quattro volte l’onore di partecipare agli «Incontri solov’ëviani» che si svolgevano nei suoi appartamenti, conversazioni a tavola con un gruppetto di ospiti da Mosca (tra cui Averincev) e di studiosi francesi del filosofo russo. Con ognuno egli parlava di ciò che l’ospite aveva più a cuore, con me di poesia.

Ma l’impressione più forte l’ho avuta durante un altro incontro. Alla fine del 1999, in piazza San Pietro, avevo assistito da lontano al «Giubileo dell’handicappato». Folle di persone mutilate, minorate fisicamente e psichicamente, gli sfilavano davanti per ricevere la benedizione. Il Papa era seduto nella sua poltrona, anche lui duramente colpito dall’infermità. Invalidi di tutto il mondo passavano davanti al Grande Invalido. Dopo aver ricevuto la benedizione diventavano degli altri, splendevano di gioia. Mi aveva impressionato in particolare il mutamento di espressione sulvolto di un gruppo di bambini mentalmente ritardati, che sembrava non fossero in grado di reagire a niente. Nel suo discorso, in quell’occasione Giovanni Paolo II disse che proprio nella figura dell’handicappato l’umanità si presenta sulla soglia del nuovo millennio. Ed ebbe anche la forza di restituire loro un po’ di gioia dicendo: «Non abbiate paura! Siete amati!».

Dai mass media veniamo a sapere che sublime e luminoso evento sia stata la sua scomparsa per moltissimi uomini di tutto il mondo, in diversi paesi, cristiani e non. «Non ho mai visto a Parigi dei volti così!», mi ha detto al telefono un’amica francese. Che amarezza, che noi siamo stati tagliati fuori da questo evento umano universale, dalla possibilità di dire addio a una grande anima che ha visitato il nostro mondo, e di manifestare la nostra gratitudine ad essa e a Colui a cui si era consegnato, «Totus tuus».
Trad. Giovanna Parravicini
Dante. Inferno. Canti XII–XIV
Il campo di interazione fra la cultura laica e la Chiesa
La libertà come realtà escatologica
La santità non ha confini
Apologia della ragione
La sorpresa di Dostoevskij e Pasternak
L'epifania della Bellezza. Appello del papa agli artisti
L'anima: una cosa assente
"Il nodo della vita". La poesia come esperienza spirituale in Anna Achmatova e Osip Mandel'štam
A proposito della poesia: fine, inizio e prosecuzione
In memoria di un filosofo
 Totus tuus
Il problema dell’uomo nell’odierna cultura secolarizzata
L’antica fiamma. La poesia di Elena Schwarz
I nostri maestri. Per una storia della libertà in Russia
La lingua slava ecclesiastica nella cultura russa
Vento da Occidente. L’idea occidentale nella cultura russa
Orientale lumen: aspettando una risposta
Dante Alighieri, immagine della nuova laicità
La società russa alla luce del Majdan
Il cavaliere di bronzo: poesia e prosa di Pietroburgo
Un’«epifania fallita»: due romanzi cristiani, L’idiota e Il dottor Živago
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