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INTERVISTA
Vento da Occidente. L’idea occidentale nella cultura russa
Od zachodu wieje wiatr…
K.I.Gałczynski
Comincio con alcuni versi del poeta Gałczynski.

Un vento da Occidente è spirato,
da Ronsard, da Boccaccio,
da Kochanovius.
Flora, getta più sterpi nella stufa!
Della primavera, ancor tremante,
portaci novella, o santa Musa!


Avevo tradotto questi versi negli anni dell’ università. Certo, quello che l’Occidente rappresenta per la Polonia e quello che rappresenta per la Russia non è la stessa cosa. Per noi il vento dalla Polonia è già vento da Occidente, e più volte, com’è noto, l’Occidente è giunto in Russia proprio tramite la Polonia. Ma, come in questi versi polacchi, il vento da Occidente era per me vento di risveglio primaverile, di liberazione, di ispirazione poetica. Al posto di Kocha novius (forma latina del nome di un classico della poesia polacca, Jan Kochanowski) avrei potuto benissimo mettere il nome di Puškin. In Puškin spirava il medesimo vento primaverile dall’Occidente, «da Ronsard, da Boccaccio».

Com’è noto, il tema (ovvero la concezione, il mito) dell’«Occidente» è al centro di tutta la storia russa dell’epoca successiva a Pietro. Non è un problema di politica estera, ma una questione interna alla cultura russa, potremmo dire, un suo problema spirituale. Proprio in riferimento all’«Occidente», in continuo paragone ad esso la Russia è alla ricerca di una propria imagine (fino al XX secolo «Occidente» significava Europa, ora significa anche America, anzi spesso in primo luogo America, ma ne parleremo dopo). In polemica con l’«Occidente» si è formata l’«idea russa» che pone l’accento sull’enigmatica, inconoscibile identità russa – inconoscibile per l’«europeo», e anche per il russo europeo (cioè per le persone colte ed educate secondo il modello occidentale, post-rinascimentale e postilluminista):

Non capirà né vedrà
il superbo sguardo forestiero
quel che traluce e splende in segreto
nella tua umile beltà.


In questi celebri versi di Tjutcˇev la Russia si contrappone all’Occidente in quanto paese cristiano povero, mite, sofferente, rispetto al ricco, operoso e superbo vicino ateo. È un’antitesi caratteristica del pensiero degli slavofili. Non si può neppure immaginare che lo «sguardo forestiero» non sia altezzoso, ma al contrario compassionevole o rispettoso. In questi casi non si fa parola, generalmente, della tradizione cristiana occidentale. Se poi se ne parla, il cristianesimo occidentale viene presentato attraverso caricature come il «gesuita», Tartufo o il Grande Inquisitore, cioè sinistre metafore dell’ipocrisia religiosa1. Ma, notiamo, neppure i viaggiatori occidental del XVII-XIX secolo vedono nella «fede russa» alcunché di cristiano («è una commistione di buddismo e di islam», dirà Balzac). Oggi non ho intenzione di esaminare l’«idea russa», l’idea che la Russia ha di sé2, sempre in contrapposizione diretta o indiretta con l’«Occidente» e il resto del mondo. Uno storico e diplomatico italiano dei nostri giorni, testimone degli avvenimenti più recenti, ha descritto quest’atmosfera in termini molto severi: «Il paese si isola dal mondo e si perde nella narcisista contemplazione della propria originalità o nella compiaciuta commiserazione dei propri vizi»3. Il mio tema di oggi è l’«idea europea», ovvero ciò che la Russia pensa dell’Occidente.

L’«idea europea» non ha acquisito una semplicità di formulazione paragonabile all’«idea russa». Ciò che viene solitamente definite come «occidentalismo» russo comprende fenomeni tanto diversi da essere agli antipodi fra loro. Inoltre, un certo tipo di occidentalismo russo (forse proprio il più noto), nasce dallo stesso mito dell’«Occidente» che aveva generato anche i suoi antagonisti «slavofili».

Questo mito è abbastanza angusto: l’«Occidente» rappresenta la civiltà materialista, spiritualmente impoverita, il mondo del razionalismo meccanicista, dell’individualismo, della tecnologia e dell’utilitarismo. Ed esattamente la stessa gamma di caratteristiche, ma di segno positivo (nel senso che è «moderno», «civile», così vivono le «persone intelligenti» e non gli «idioti» che ci sono da noi), contrassegna l’«Occidente» nella variante «volgare» dell’occidentalismo russo. Tra i personaggi letterari classici che lo personificano, ricordiamo ad esempio il lacchè Jaša nel Giardino dei ciliegi di Cˇ echov, lo Smerdjakov di Dostoevskij (I fratelli Karamazov) e altri suoi personaggi «demoniaci». Questa copia caricaturale dell’«Occi dente» (con slogan del tipo: «Tutto è permesso!», oppure «Ne ho il diritto!») probabilmente sembrerà agli europei non meno esotica degli usi russi più arcaici. Il nichilismo russo è abituato, almeno dal XVIII secolo (quando la parola «nichilismo» non era ancora in uso) a cercarsi una legittimazione nell’«attualità europea». A questo tipo di occidentalismo è legato il tema dell’«arretratezza» russa, l’idea di dover «rincorrere» il mondo progredito o di non voler «restare indietro» rispetto ad esso, di «essere moderni». I russi che vogliono essere alla moda (compresi gli intellettuali) sono dogmatici all’inverosimile.

L’«Occidente» in un’altra variante, per così dire aristocratica o romantica (il «paese dei santi prodigi» di Versilov ne L’adolescente), è anch’esso in realtà una componente interior della cultura russa. La particolare, ardent venerazione nei confronti del genio della cultura europea («noi capiamo tutto», «noi amiamo queste sacre pietre, più di loro stessi!»), è un fenomeno originale russo (lo ritroviamo anche nel Nuovo mondo, basti pensare ad E. Pound, a T.S. Eliot). Questo idealism russo sull’Europa era fin dal XIX secolo inconciliabile con la «prosa» della vita occidentale contemporanea, con il «giallo polverone europeo»4, con quello che i cavalieri russi dell’Europa chiamavano meschinità e freddezza dell’esistenza borghese (cfr. gli appunti di viaggio di Lev Tolstoj, Dostoevskij, Blok). Ardentemente amata nei suoi artisti, eroi, pensatori, l’Europa non era da essi accettata nelle sue istituzioni e norme quotidiane di vita. La loro antipatia nei confronti della vita quotidiana dell’Occi dente ostacolava addirittura il semplice desiderio di comprenderne e studiarne il sistema e le strutture.

Alla scoperta della tradizione cattolica

Tuttavia, la presenza del fascino esercitato dall’Europa ideale, creativa e umanistica è intensa e costante nella cultura russa. Questo «eros europeo» della storia russa, che Mandel’štam chiamava «nostalgia della cultura universale», non amava nella civiltà europea l’individualismo asociale (come nell’occidentalismo alla Smerdjakov, o nell’occidentalismo dei petit-maître del XVIII e dei nichilisti del XIX secolo), ma al contrario ne apprezzava la socialità altamente sviluppata, la gentle society, il rispetto per la persona (ljudskost’, per usare l’espressione di Batjuškov), che i «russi europei» avrebbero voluto vedere sulla sponde natie. Da queste sponde essi scorgevano l’Europa profilarsi come il luogo, il contesto in cui l’uomo può (e ha potuto) realizzare le proprie potenzialità creative e culturali, la propria umanità, «intelletto e talento»5. Quest’ispirazione culturale esistita per secoli sembra confutare la conclusion tratta da Sergio Romano nel libro già citato, secondo cui la Russia in sostanza non si sarebbe mai interessata all’Occidente in quanto realtà spirituale e culturale («L’antica convinzione russa che l’Occidente non è cultura o spiritualità, ma “tecnica”, vale a dire un prezioso deposito di strumenti e cognizioni tecniche di cui altri possono liberamente appropriarsi senza per questo rinunciare al proprio superiore sistema di valori»)6. D’altro canto, la conclusione di Sergio Romano è indubbiamente giusta rispetto al fatto che l’«occidentalismo» idealista, umanistico, creativo è sempre appartenuto a cerchie della società colta russa che si trovavano in qualche modo all’opposizione, e non si ripercuoteva quindi sulle posizioni dello Stato russo, sul carattere delle iniziative «occidentalizzanti» ufficiali, che erano erestano appunto quelle descritte da Romano. Per farsi un’idea di come si presentasse l’occidentalismo russo di stampo «elevato», basta visitare una tenuta degli inizi del XX secolo, ad esempio la villa del pittore Polenov nei pressi di Tarusa. L’Europa ci appare qui come un modello culturale, morale e perfino religioso (il cristianesimo non veniva recepito nella cerchia della famiglia Polenov nella versione tradizionale ortodossa, ma «alla Renan»; tuttavia, Polenov progetta lui stesso e costruisce per i suoi contadini una chiesa ortodossa, in cui alla fisionomia dell’architettura lignea della Russia settentrionale si uniscono elementi gotici). L’attività educativa e filantropica della famiglia Polenov (scuole, ospedali per contadini, corsi di disegno per i figli dei contadini) e di molte altre famiglie nobiliari in epoca prerivoluzionaria, è indubbiamente frutto del loro «europeismo». Tanto più sorprendente è la sfumatura locale, russa, di cui è imbevuto questo umanesimo cristiano europeo, così devotamente accolto.

Io credo che le cose andassero in maniera analoga anche in un altro innesto culturale, il primo cronologicamente, vale a dire il trapianto (come definì questo processo Lichacˇëv) dei modelli bizantini nell’Antica Rus’. La recezione dell’«europeicità» in fenomeni come, ad esempio, il ritratto russo del XVIII secolo, la pittura di Ivanov, Šcˇedrin e Venecianov, la poesia di epoca sia precedente che contemporanea a Puškin, la musica di Glinka e Skrjabin o le ricerche artistiche del Secolo d’argento è simile all’adattamento cui furono sottoposti i modelli artistici bizantini nella Rus’ prima di Pietro il Grande. Nella loro aspirazione all’universalismo (che a quell’epoca non era incarnato per i russi dall’«Occidente», ma da Costantinopoli), e senza preoccuparsi affatto del «colore locale», iconografi e architetti consentirono istintivamente a questo «colore locale» di esprimersi in tutta la sua freschezza. Le correnti bizantineggiante ed europeizzante della cultura russa possono essere entrambe ricondotte a ragione a quella sua linea che Mandel’štam definiva «ellenistica» (in contrapposizione all’altra scuola, «locale»). Dietro i modelli sia bizantini che europei traspare sempre la loro fonte, cioè l’antichità classica, greca o latina. E anche un’altra fonte, che Chateaubriand chiama «genio del cristianesimo». Ho l’ardire di affermare che la cultura russa ha recepito il «genio del cristianesimo» quasi esclusivamente attraverso la cultura laica.

Ci si può chiedere che cosa questo «genio del cristianesimo», «mistero dell’uomo-cristiano», che le persone colte in Russia non potevano non avvertire nella cultura occidentale7, abbia a che fare con il cristianesimo occidentale in senso stretto, cioè con il cristianesimo vissuto nella Chiesa occidentale, con la sua teologia, mistica, ordinamento disciplinare e così via. E in primo luogo, con il cattolicesimo, poiché il cattolicesimo ha sempre occupato nel pensiero russo un posto senza paragoni più rilevante rispetto al protestantesimo. Alla contrapposizione fra «Russia» e «Occidente», nella dimensione confessionale corrisponde la coppia «ortodossia» – «cattolicesimo» (è interessante che, nonostante la notevole partecipazione numerica di persone alla tradizione protestante – prevalentemente luterana – nel corso della storia russa, le relazioni con il protestantesimo in Russia non siano mai divenute un tema culturale; il tolstoismo, variante russa del protestantesimo, apparve al mondo culturale ed ecclesiale come un’ondata assolutamente inaspettata). La successiva autocoscienza ortodossa, come anche l’«idea russa», si sviluppò per molti aspetti in polemica con il cattolicesimo, prendendone le distanze. Gli apologetic dell’ortodossia solitamente sottolineavano i difetti «cattolici» da cui era libera la nostra tradizione, e i valori ortodossi che erano invece sconosciuti all’Occidente. Veniva in mente di osservare anche i valori, i doni di cui era dotata la tradizione cattolica e che invece mancavano alla propria? Se a qualcuno veniva in mente, come a Cˇaadaev, le cose finivano presto o tardi con il passaggio al cattolicesimo e, per note ragioni, con l’emigrazione. Ma i cattolici russi sono un tema a sé. A noi qui interessa un’altra situazione: un’appassionata e profonda attenzione all’altra tradizione all’interno della propria, la disponibilità a mettersi alla scuola dell’altro, ad accoglierne qualcosa con gratitudine. E qui va detto che fino ai tempi più recent questa posizione nella cultura russa resta pressoché sconosciuta8.

Criticando alcuni aspetti della propria tradizione, la teologia ortodossa li spiega solitamente come una conseguenza dell’«occidentalizzazione», della «penetrazione latina» (padre Georgij Florovskij, Christos Jannaras e molti altri). Grazie a questa consolidate posizione noi, che pure non conosciamo sostanzialmente l’autentica tradizione occidentale, possiamo elencare come un dato di fatto tali particolarità «occidentali» negative: il sostituirsi della «religiosità» alla vita di fede; dell’istituzione alla Chiesa; della conoscenza obiettiva razionale alla conoscenza per esperienza; della meditazione o estasi alla contemplazione orante; del concetto o allegoria all’icona; del dualismo di sentimento e pensiero al «cuore», e così via. Così ci hanno insegnato, e ogni ortodosso conosce a menadito le critiche più diffuse al cattolicesimo e ai suoi punti fondamentali. Ahimè, neppure gli ortodossi praticanti e istruiti in materia di fede, generalmente conoscono l’autentica tradizione cattolica, i movimenti che esistono oggi nel cristianesimo occidentale e i temi della sua riflessione odierna, tra cui il profondo interesse per il cristianesimo orientale e l’immenso lavoro, carico di simpatia, che si fa per studiarlo. Ne sono un esempio Russia Cristiana e il suo fondatore padre Romano Scalfi. All’interno dell’ortodossia non conosciamo nulla di simile. Da noi sarebbe impensabile un movimento che si chiamasse «Italia Cristiana» (almeno per il momento, speriamo). Ai nostri giorni siamo ancora troppo impreparati per un cordiale elogio dell’Occidente cristiano dall’interno dell’ortodossia. All’ispirato inno all’ortodossia, rappresentato dalla Lettera apostolic Orientale lumen di Giovanni Paolo II, non corrisponde per il momento nessuna voce ortodossa in grado di descrivere con la stessa profondità e penetranza i carismi del cristianesimo occidentale. Stiamo solo cominciando a riconoscerli.

E qui vorrei fare tre nomi significativi, grazie ai quali sta avvenendo oggi questo riconoscimento: Sergej Averincev, Na tal’ja Trauberg e padre Georgij Cˇ istjakov. Tutti e tre ci hanno lasciato negli ultimi anni. Hanno insegnato ai loro lettori e ascoltatori – forse per la prima volta, nella storia russa – a udire l’autentica voce del cristianesimo occidentale. Attraverso di loro abbiamo sentito parlare Tommaso d’Aquino e Francesco, l’innografia latina medievale e l’apologetica moderna… Abbiamo udito una voce che non può non commuovere l’anima cristiana, la voce geniale di una fede pura. Abbiamo visto i volti di uomini di Dio. È l’inizio di un incontro, da cui non si torna più indietro.

Libertà e dignità

Ma anche prima di questo incontro con il cristianesimo e la dimensione ecclesiale abbiamo di che ringraziare il «genio del cristianesimo» europeo. Come ho detto, l’abbiamo conosciuto tramite la cultura laica. Possiamo ricordare che anche l’Occidente ha cominciato a conoscere e ad amare la tradizione ortodossa non attraverso le sue espressioni ecclesiali, bensì grazie al «romanzo russo», Tolstoj e Dostoevskij. I maestri europei della Russia (e non solo della Russia: dai dialoghi del patriarca Atenagora apprendiamo quale importanza abbiano avuto nella sua vita spirituale I miserabili di Victor Hugo) potevano sentirsi lontanissimi da ogni tradizione ecclesiale e da Roma, così come il legame degli scrittori russi con la propria Chiesa d’origine era talvolta problematico. Potevano perfino ribellarsi ad essa, ma ciò che portavano le loro opere era impregnato di questa secolare scuola cristiana; essi ne esprimevano la bellezza e le potenzialità creative, e questo è probabilmente chiaro soprattutto a chi guarda dall’esterno. La «santa letteratura russa» (come la chiamava Thomas Mann), attraverso cui l’Occidente percepì per la prima volta il gusto della religiosità ortodossa – Tolstoj, Dostoevskij, Cˇ echov e molti altri, la particolare umanità e ispirazione che si incarna nel loro scrivere, il loro immergersi a capofitto nelle «questioni ultime», in ciò «di cui vivono gli uomini» (a questo, ormai tradizionalmente, gli europei collegano il principio russo in arte); ebbene, tutto questo sarebbe stato impossibile senza maestri europei come Dickens, Hugo, Rousseau, Schiller, Raffaello… Senza personalità, nelle cui opere lo spirito europeo si svelava come spirit della civiltà cristiana, dell’umanesimo sociale cristiano con i suoi valori in genere pressoché esotici nella realtà russa: il valore assoluto della libertà e l’inderogabile rispetto della persona umana. Lo spirit dell’Europa cristiana, come lo conobbero scrittori, artisti, pensatori nella Russia della servitù della gleba, come l’abbiamo conosciuto noi, negli anni dell’asservimento comunista, era la negazione dell’umiliazione e della violenza. E se leggendo nella nostra infanzia e adolescenza i classici della letteratura europea non potevamo renderci conto del nesso che quelle opere avevano con la fonte del cristianesimo e la sua evoluzione in Europa, noi indubbiamente riconoscevamo nel volto di Andersen o nel volto di Dickens un volto cristiano, e in questo modo riconoscevamo nella libertà un dono cristiano, la «segreta libertà» di cui parlava Blok, sulla scia di Puškin. «Segreto» (tajnyj) nello slavo ecclesiastico e in Puškin significa «misterioso»: non si tratta cioè di una libertà vissuta nella clandestinità, ma di una libertà misteriosa. La libertà non è infatti meno misteriosa degli altri doni elencati, come tesori d’Oriente, dall’Orientale lumen.

La libertà è legata a un altro dono portatoci dal vento d’Occidente: all’esperienza reale del presente. Dell’uomo occidentale di oggi Giovanni Paolo II scrive: «Spesso oggi ci sentiamo prigionieri del presente; è come se l’uomo avesse smarrito la percezione di far parte di una storia che lo precede e lo segue… Le Chiese dell’Oriente offrono uno spiccato senso della continuità, che prende I nomi di Tradizione e di attesa escatologica»9. Averincev, che con tutte le sue forze si opponeva al culto dell’appiattimento del presente, scriveva: «Il presente è importante, ma solo e unicamente perché attraverso di esso la profondità misteriosa del passato e la misteriosa vastità del futuro si rivelano l’una incontro all’altra»10. In effetti, vivere unicamente del piatto «presente», del «momento attuale» è terribile. Ma sappiamo che esiste anche un altro pericolo, quando l’uomo, perdendosi nelle profondità del passato e nella vastità del futuro, perde il senso del presente, di ciò che lo urge pressantemente, qui e ora, a dare nuove risposte o nuove forme di risposta. Probabilmente, per avvertire davvero il presente come qualcosa che non si è ancora attuato ed è già decisivo, cioè ricordare che anche il passato è stato una serie di questi attimi presenti, e che il futuro non si distinguerà in nulla dal presente, occorre la libertà. La libertà di scelta personale, la libertà dalle strutture impersonali: sociali, storiche, statali, etniche e così via; da ciò che in esse è repressivo dell’intima profondità della persona, dallo spazio asfittico della fatalità, che esse portano con sé. Ma più seriamente, libertà dalla lotta senza via d’uscita per il potere o contro il potere, sotto i più diversi slogan. La libertà di non dominare né sottomettersi, ma di «donare la libertà» agli altri: il conforto così profondamente trasmessoci da Puškin. È il conforto dell’ispirazione, il conforto della creatività. Anche questo ce l’ha portato il vento occidentale. Certo, potremmo trovare le chiavi di questa libertà anche nella nostra tradizione, nelle antiche vite dei santi monaci, nei racconti su starcy e asceti che raggiunsero vette vertiginose di una libertà realmente liberante, nell’esperienza viva di incontri con uomini di grande levatura spirituale, nella predicazione del nostro contemporaneo metropolitan Antonij di Surož. Ma per l’opinione corrente negli ambienti ecclesiastici e per molti pubblicisti ortodossi dei nostri giorni la libertà resta un concetto estraneo e avverso, «occidentale», «intellettuale», «irreligioso». Presente e attualità vengono guardati come tentazioni del demonio, da cui occorre difendersi con «sacri principi» e «beate speranze». La misteriosa libertà e il misterioso senso del presente rappresentano dunque i doni, per I quali innanzitutto vorrei ringraziare l’Occidente. I valori cristiani della libertà e della dignità umana in Occidente si sono propagate da chiese e monasteri fino a giungere al mondo e sono diventati i fondamenti della società civile perfino nel suo attuale assetto di secolarismo; nella società russa, invece, non si sono affatto consolidati. Ora dalla parte storica mi permetto di passare a quella della memoria personale. Il movimento massiccio e ufficiale incontro all’Occidente (iniziato da Gorbacˇëv come «ritorno ai valori umani comuni») era stato preceduto da un’altra «idea occidentale»: il movimento della cultura indipendente.

L’avanguardia culturale degli anni Settanta era indubbiamente rivolta verso l’Europa (a differenza dei filo-americani degli anni Sessanta). Un esempio di quest’atmosfera può essere lo strutturalismo, la scuola di cultura che aveva i suoi centri a Tartu, Mosca eLeningrado, l’avanguardia della scienza umanistica degli anni Sessanta-Settanta. Una prospettiva ancor più ampia è stata aperta da Averincev, che si definiva un «nativo del Mediterraneo». Le opere di Averincev uniscono la profondità teologica degli esordi dello slavofilismo, all’apertura e alla lucidità razionale cui aveva sempre teso la tradizione occidentalista.

La rinascita culturale e scientifica si è sviluppata alle periferie della cultura ufficiale e sembrava ammessa a motivo di uno strano allentarsi della sorveglianza. Nei confronti di esperimenti propriamente creativi (poesia, pittura, pensiero), il controllo non accennava ad allentarsi: la cultura creativa contemporanea era relegata nella clandestinità. Poesia, pittura, musica, teatro non autorizzati racchiudevano in sé la medesima «nostalgia della cultura universale». Protendendosi verso l’«Occidente», aspiravano contemporaneamente a riunirsi al proprio Secolo d’argento, all’ultimo passato russo che non fosse stato profanato dal lumpen-bolscevismo11. I titoli latini di antologie di poesie che circolavano nel samizdat (come Exercitas exorcitans, il primo libro samizdat di Elena Švarc) comunicavano al proprio lettore questo doppio vettore. In copie samizdat circolavano traduzioni di opere filosofiche (Heidegger, Jaspers, Buber), pensatori cristiani (Maritain, Karl Barth, Bonhoeffer, Tillich, Chesterton, Lewis). La possibilità stessa di leggere alter lingue contrassegnava l’appartenenza a una determinata cerchia culturale, ben diversamente informata (la censura delle pubblicazioni in lingua straniera non era così rigida) e dotata di ben altre possibilità intellettuali rispetto a quanti leggevano solo il russo. E dal momento che questa cerchia elitaria era di fatto ristretta, l’attività di traduzione acquistava un’insolita, creativa attualità. Diventavano un evento culturale non solo – e probabilmente, non tanto – le traduzioni di letteratura contemporanea, quanto, ad esempio le traduzioni del neoplatonico Proclo o di Tommaso d’Aquino. Anche queste traduzioni potevano passare o no la censura. Ad esempio, gli apologeti inglesi, Lewis e Chesterton, nelle traduzioni di Natal’ja Trauberg, passavano di mano in mano in copie dattiloscritte. Lo stesso succedeva per molte traduzioni di Bibichin. La distanza temporale e geografica non valeva a mettere al sicuro dalla censura, che agiva perfino sugli spartiti per l’infanzia: dal Quaderno di Anna Magdalena Bach e dall’Album per l’infanzia di Cˇajkovskij venivano espunti i titoli «religiosi». Passava di mano in mano una traduzione «fatta in casa» del testo della Passione di Bach (che suonavano solo gruppi musicali in tournée; chi aveva studiato la Passione nel corso di storia della musica, aveva un’idea quanto mai vaga del soggetto dell’opera!). La nostalgia del «sublime Occidente», custode dei due fondamenti della civiltà europea estirpati dal regime, e cioè l’antichità classica e l’eredità biblica, negli anni Settanta era – credo – incomparabilmente più acuta rispetto al Secolo d’oro o d’argento della cultura russa: si guardava al «paese dei santi prodigi», per dirla con le parole di Mandel’štam, dalla «fossa dei leoni» dell’imbarbarimento e della disumanità sovietici. Di là, da quel paese giungeva l’eco della parola di uomini liberi, quali ci si immaginava fossero tutti gli autori «occidentali». L’Occidente attuale, postindustriale era, nel contempo, praticamente sconosciuto. Il sogno dell’Europa viveva in una dimensione atemporale, platonica, e si concludeva all’incirca con l’epoca dell’esistenzialismo. Una parodia dell’immagine di «Europa» che avevamo è fornita da Venedikt Erofeev nei capitol «esteri» del suo Petuški12. Qui gli italiani pensano esclusivamente a cantare e dipingere: uno canta, l’altro lo ritrae, e il primo canta descrivendo come quello dipinge.

– Io ero sicura che non avrei mai visto Westminster – dissi al mio accompagnatore inglese a Londra, nel novembre 1989.
– Allora adesso lei è nel suo «mai», in your never! – mi rispose.

Elena Švarc racconta nelle sue memorie di quando aveva visto per la prima volta dall’aereo i contorni di Londra (sempre nel 1989), e aveva capito che la vita di prima era finita, e iniziava la «vita dopo la vita».

In realtà, abbiamo fatto l’esperienza di trovarci nel nostro «mai», abbiamo provato lo shock di vedere l’«Elisio delle ombre», l’aldilà platonico scendere dal cielo a fermarsi sulla terra, davanti ai nostri occhi. I nomi acquistavano i propri soggetti: eccola qui, la Sorbona! E questo è l’Arno! Il nostro «Occidente» era fatto di nomi. Di nomi, date, particolari che ricordavamo in numero sterminato. Arrivando per la prima volta a Parigi o a Colonia, Averincev era in grado di fare delle visite guidate in queste città alla gente del posto.

L’incontro con l’occidente, oggi

Perché questi nomi ci erano tanto cari? Ci comunicavano la speranza che il mondo non fosse come tutto quello che vedevamo intorno a noi; che esistesse il genio umano e la vita umana. Tra i valori che sentivamo come «europei», il primo, naturalmente, come ho già detto, era la libertà, la libertà personale. La libertà intellettuale e creativa, innanzitutto, e se si parlava di libertà politica era perché il regime politico esistente non ammetteva tutto questo. Da che cos’era libero il «mondo libero»? Dal «ruolo guida del partito» e dal ruolo non meno guida dal KGB, dalla «dottrina più all’avanguardia»: dall’umiliazione e dal controllo ideologico, dal populismo e ignoranza forzati. La libertà economica interessava poco all’ambiente che ho descritto. Il fascino della forma, della poliedricità della natura, della bellezza autonoma, dell’innovazione artistica, della ricerca intellettuale, della prospettiva storica, tutto questo si chiamava «Europa». La nostalgia dell’«Occidente» era una nostalgia dell’anima. Non a caso la parola «anima» compare nei versi del giovane Brodskij dedicati a John Donne, e la sua Preghiera Okudžava la attribuiva a François Villon. Dalla prigionia dell’ateismo militante in Russia, forse per la prima volta abbiamo intuito che l’Europa rappresentava il mondo cristiano. E la cosa essenziale è che la «cultura universale» dell’umanesimo europeo si contrapponeva nella nostra coscienza non alla tradizione russa (che, nella sua veste prerivoluzionaria, si collocava nello stesso mondo dell’aldilà), ma solo ed esclusivamente a quella sovietica. A differenza di quanto avveniva per i vecchi slavofili e occidentalisti, per noi al polo opposto dell’«Occidente» non c’era la «Russia», ma il «magnifico mondo nuovo». La «Russia» aveva la medesima collocazione dell’«Occidente»: in una dimensione dove l’anima aveva la possibilità di esistere, e dove avevano la possibilità di esistere la libertà e il genio (sancta Musa).

L’incontro con l’Occidente reale ha rimosso la sua immagine leggendaria. L’Europa postmoderna dopo tutte le sue rivoluzioni – consumistica, culturale, sessuale, tecnologica, – l’Europa dell’epoca del globalismo e della società di massa si è rivelata troppo poco somigliante al «paese dei santi prodigi». Tra i nomi influenti e famosi degli europei contemporanei non udiamo la voce del «grande europeo» cui guardavamo con venerazione in Russia. Sì, con questa voce parlava Giovanni Paolo II, ma nella cultura laica echeggiano voci completamente diverse. Il vento d’Occidente non ci porta più la nostalgia della Musa e dell’anima: ci porta l’arte attuale, azioni, installazioni e altra roba morta. Ci porta ciò da cui un tempo cercavamo di fuggire: populismo, materialismo opaco, morte dell’autore, morte del compositore e innumerevoli altre morti… Così oggi si delinea l’«idea occidentale» nella cultura russa laica. È con questa triste osservazione che sono costretta a chiudere. Noi attendevamo il vento d’Occidente, e gli europei la luce da Oriente. È rimasto qualcosa di questa attesa? Un serio lavoro di studio dell’Europa e dell’America come sistemi reali sta ora avvenendo in altri campi: nel pensiero economico, giuridico, sociologico. E questo, a differenza dell’«occidentalismo» e «slavofilismo» caricaturali che contraddistinguono l’arte russa contemporanea e il pensiero umanistico, è realmente un fenomeno nuovo nella storia russa.
L A N U O V A E U R O P A 6 • 2 0 1 0

1 Interessante notare che questa caricatura del cattolicesimo non è nata da un’esperienza di contatto reale, ma in gran parte dalla letteratura anticlericale occidentale (in primo luogo francese).

2 Cfr. su questo: Russkaja kul’tura. Vvodnaja lekcija (La cultura russa. Lezione introduttiva), «Kontinent», 2010.

3 Sergio Romano, La Russia in bilico, Bologna 1989, p. 8.

4 Cit. dalla poesia Florencija (Firenze) di Aleksandr Blok, 1909. ndt

5 Cfr. le parole di Puškin: «Lo sa il diavolo perché con intelletto e talento sono andato a nascere in Russia». Sia l’uno che l’altro, intelletto e talento, nella realtà russa non solo non godono di considerazione, ma vengono guardati con sospetto.

6 S. Romano, op. cit., p. 130.

7 Cfr. a questo proposito la bellissima recensione di Puškin alla traduzione del libro di Silvio Pellico (1836): «Sono pochi gli eletti (anche fra i primi pastori della Chiesa), che nelle loro opere si avvicinano per mitezza di spirito, dolcezza di eloquenza e semplicità infantile di cuore alla predicazione del Divino Maestro. Negli ultimi tempi l’anonimo autore del libro Imitazione di Cristo, Fénelon e Silvio Pellico appartengono in sommo grado a questi eletti…». E più avanti: «Il libro Dei doveri (degli uomini) ci ha fatto arrossire e ci ha svelato il mistero di un’anima bellissima, il mistero dell’uomo-cristiano».

8 Puškin anche in questo caso rappresenta una stupefacente eccezione. In alcune memorie viene riportato un suo dialogo con il giovane Chomjakov. «All’affermazione di Chomjakov, secondo cui in Russia c’è più carità cristiana che in Occidente, Puškin rispose con una certa impazienza: “Può darsi. Io non ho misurato la quantità di amore fraterno né in Russia né in Occidente; ma so che là sono state fondate comunità fraterne che qui non esistono. E invece ci sarebbero utili”». Cit. in S. Frank, Etjudy o Puškine (Studi su Puškin), Parigi 1987, p. 105.

9 Orientale lumen, 8.

10 S. Averincev, Duemila anni con Virgilio, in Dieci poeti, «La Casa di Matriona», Milano 2001, p. 34.

11 Gioco di parole rispetto al lumpen-proletariato, termine coniato da Marx per definire la categoria infima del proletariato. ndt

12 Moskva-Petuški, un romanzo satirico apparso in Russia, nel samizdat, nel 1973. ndt
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Un’«epifania fallita»: due romanzi cristiani, L’idiota e Il dottor Živago
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