In Ol'ga Sedakova incontriamo versi che vorremmo trattenere nella mente, non lasciare andare, come un talismano che stringiamo tra le mani. Come difesa dalla spazzatura e dalla cenere del tempo, dallo scatenamento dei demoni muti e sordi. Sì, il fuoco brucia. Oh che guaio, oh, che / guaio, colmo fino al fondo'. Di che cosa non ha mai cessato di parlare la poesia se non di questo? In ogni parola riecheggia quello che il lessico della tradizione ascetica definisce il ricordo della morte': la capacità di guardare dal lato della fine, di non distogliere lo sguardo, acutamente e fissamente (Sergej Averincev). È l'ora di andare là dove ogni cosa è di compassione.
Prefazione. Adalberto Mainardi
e quindi uscimmo a riveder le stelle
(Inferno XXXIV,139)
Ol’ga Sedakova ha iniziato a comporre poesie prima di imparare a leggere e scrivere, “da che mi ricordo, e forse ancora prima”, in quel tempo senza memoria che precede il primo vero e proprio trauma dell’infanzia, la “catastrofe della coscienza”: l’incontro faccia a faccia con lo scorrere eracliteo di tutte le cose, la consapevolezza del passare del tempo.
Naturalmente, leggiamo nell’Elogio della poesia, deliziosa e paradossale autobiografia poetica, le involontarie rime sopravvissute al naufragio del passaggio all’adolescenza non sono ancora poesia. Quest’ultima può certo serbare traccia di quella stagione immemorabile al fondo di ogni nostalgia nell’età adulta, del segreto desiderio che “lentamente il tempo si trascini, / come il fulmine nella prima infanzia”; ma come ben sapeva Rilke, „der Weg von der Innigkeit zur Größe geht durch das Opfer“, la via dal mondo interiore alla grandezza, alla scoperta del senso, passa attraverso il sacrificio. Un bambino, al contrario, “non ha nulla da portare in offerta, in lui tutto è beatamente altrui”. Anche l’offerta del poeta deve sottostare alla prova del tempo: durare la fatica della discesa nel profondo, del confronto con la realtà, al di sotto della superficie magica delle cose, che riflette la nostra immagine come lo specchio d’acqua i tratti incompiuti di Narciso. Persino la poesia apparentemente immersa nell’atemporale danza delle immagini deve riconoscere il proprio tempo, e scoprire di appartenergli.
“Non esiste arte non contemporanea (che non riveli il proprio tempo)”, ammoniva nel 1932 Marina Cvetaeva esule in Francia: “La contemporaneità del poeta è la sua condanna al tempo. Condanna ad essere da lui condotto”. Il sentimento del tempo è un dono altrettanto insondabile, inspiegabile al suo fondo, dell’ispirazione poetica: prima che il poeta, per scelta o per vocazione, appartenga al proprio tempo, gli aderisca o lo rifiuti, il tempo stesso s’incarica di appartenergli – come compito e come promessa.
Per Ol’ga Sedakova, e con lei per i poeti e gli artisti che all’appassire del timido disgelo chruščeviano, alla fine degli anni ’60, si affacciavano ai vent’anni, essere contemporanei significò essere irrimediabilmente inattuali: esclusi dai circuiti ufficiali fin quasi alla fine della perestrojka, esiliati nel loro proprio paese, i reietti di questa “generazione letteraria perduta” – l’espressione è della stessa Sedakova – scoprivano di avere insospettati compagni d’esilio nei grandi lirici russi del secolo d’Argento e, insieme a loro, d’essere contemporanei della tradizione lirica europea moderna, saltando a piè pari l’esperienza letteraria sovietica.
“Inattuali” nel paese dei Soviet erano stati ed erano, tra molti altri, Anna Achmatova e Osip Mandel’štam (“non fiutiamo più il paese sotto i nostri piedi”), Boris Pasternak e il giovane Zabolockij, incapace di adattare la propria “azienda domestica poetica” alla nuova effettualità sovietica. “Tutta la contemporaneità russa oggi è un’unica, enorme periferia spirituale: villaggi che non sono più villaggi, città che non sono più città…”: le parole di Marina Cvetaeva dall’esilio parigino si rivelano contemporanee quasi mezzo secolo dopo.
Eppure gli anni della stagnazione brežneviana, contraffatti nel mito sovietico dell’eterno presente felice, appaiono oggi alla stessa Sedakova un tempo prezioso e opportuno per le occasioni che offriva a un giovane poeta: “Sentivamo un bisogno vitale della parola poetica, non del giornalismo politico, come era stato negli anni ’60, ma della parola alta, ispirata. Poteva essere strana, e ‘oscura’, come nella mia Rosa canina. Il lettore di quegli anni non aveva paura della complessità e dell’oscurità, e non aveva complessi di fronte a un esplicito pathos – come accadde più tardi, quando sarebbe cresciuta nel pubblico la domanda dell’ironia dissacrante … Negli anni ’70 fiorì la poesia lirica di Elena Schwarz, Viktor Krivulin, Ivan Ždanov e molti altri poeti di grande talento”.
Interlocutori di quei giovani poeti al bando non erano i corifei della poesia d’intonazione civile, gli Evtušenko e i Voznesenskij, tollerati dal regime, ma i grandi autori della tradizione classica, da Bach a Chopin, da Shakespeare a Puškin, Rembrandt e Leonardo: “Solo in una prigione come l’Unione Sovietica si poteva amare Dante e Omero al modo in cui noi li amavamo: come la nostra personale salvezza”. E i classici ricambiavano questo amore, dispiegando tutto il loro potere: i loro messaggi bastavano a svelare l’inconsistenza dell’intero sistema ufficiale di valori.
Con un paradossale rovesciamento rispetto alla letteratura “underground” in occidente, che si rivoltava contro i valori stabiliti della tradizione, la “seconda cultura” degli anni ’70 in Urss cercava “clandestinamente” di riannodare il filo della tradizione spezzato dalla rivoluzione, e devastato da mezzo secolo di repressioni. Le lezioni, tra gli altri, del filosofo Merab Mamardašvili, del bizantinista Sergej Averincev all’Università di Mosca, la scuola semiotica di Jurij Lotman a Tartu (ancora una volta alla periferia dell’Impero), aprivano una finestra su un passato che appariva definitivamente “superato” alla cultura ufficiale, ma insospettabilmente gravido di futuro per chi non riusciva a celebrare le magnifiche sorti e progressive del socialismo reale. “Era la fresca riscoperta della felicità di comunicare e conversare in reciproca intesa ‘tra i nostri’”, ricorda la Sedakova, chiosando, sulla scorta di Averincev, che “questi ‘nostri’ … potevano annoverare Hölderlin o Platone, senza menzionare i grandi modernisti come Eliot o Kafka, che era come se parlassero di noi e per noi”.
Certo, c’è chi ripensa ora con disincantata ironia alle “pretese di un legame diretto con la ‘cultura mondiale’ … che negli anni ’70 avevano un carattere epidemico” e sembrano oggi irrimediabilmente anacronistiche (così il poeta e saggista russo contemporaneo Michail Ajzenberg). La stessa Sedakova ammette che “quella promessa, quel presentimento, quel prerinascimento – con tutta evidenza – non si sono adempiuti”; ma proprio negli oscuri anni ’70, confessa, “è la terra natale di ciò che ho scritto, la patria dell’anima, se si vuole”. La parola stessa, “anima”, comparve allora, scoprendosi, dopo due generazioni di oblio, inaspettatamente resistente; proprio questa resistenza era già “il primo elemento” della sua nuova patria, “e il principale strumento di resistenza è il desiderio della forma”. Resistenza e forma, i testimoni della verità, ci ricorda Kierkegaard.
Nel discorso per il ricevimento del premio Nobel, nel 1987 – uno spartiacque che anticipò poeticamente di due anni il crollo del muro di Berlino –, Iosif Brodksij rivendicava alla sua generazione il merito di aver continuato quello che, in teoria, avrebbe dovuto interrompersi nei forni crematori di Auschwitz e nelle anonime fosse comuni dell’arcipelago staliniano: “Se mi guardo indietro, posso dire adesso che abbiamo iniziato in un luogo deserto – orribilmente devastato, per essere precisi – e che intuitivamente, prima ancora che consapevolmente, aspiravamo proprio a ricreare l’effetto di continuità della cultura, a ricostruire le sue forme e le sue figure … le forme che nella nostra coscienza equivalevano a quelle della dignità umana”.
La forma, intrinseca alla poesia – dalla struttura ritmica all’immagine – non è solo un formidabile strumento euristico per aprire nuove vie, ma è il custode stesso della memoria; e la memoria – l’arte di evitare la ripetizione, di avvertire nella parola gli armonici dei molti significati, assonanze, consonanze, delle molte voci che risuonano nella trama infinita della tradizione – è uno dei tratti distintivi della parola poetica.
Memoria della forma, memoria della parola, rammemorazione dell’origine e della destinazione stessa dell’uomo, profondità inattesa del presente, al di sotto di ogni nostalgia mitica dell’infanzia, al di là di ogni infantile celebrazione dell’attuale: la poesia è questo dono. “Dono dell’improvvisa memoria della patria”, precisa Ol’ga Sedakova, “dell’amichevole, famigliare relazione con ciò dinanzi al quale solitamente, vergognosamente noi non possiamo sentire altro se non colpa. Il dono della memoria dell’Eden”.
Se non è questo il giardino,
fammi tornare
al silenzio, dove sono pensate le cose…
Quando nel 1978 La rosa canina “esce” nel samizdat, questa nostalgia, questo insopprimibile “mal del ritorno” dei molti viandanti della poesia sedakoviana, dal “figliol prodigo” a sant’Alessio, ha già intrapreso l’impossibile viaggio
dalla riga nella mano
alla stella nel fiume largo immenso del cielo …
Come acutamente osservava V. A. Sajtanov, nella postfazione al primo libro pubblicato dalla Sedakova (nel 1986 a Parigi: ancora un tamizdat!), “ciò che lasciò stupefatti come una deflagrazione quando apparve La rosa canina”, era “il sentimento del cammino. Cammino sistematicamente studiato, ripensato e percorso dal poeta stesso già per un lungo tratto. Aperto per sempre e non per una sola persona, ma per tutti quelli che desideravano entrarvi … con una sincerità toccante e un nascosto, caldo amore verso l’ascoltatore, il lettore”.
Una lirica non monologica, quella della Sedakova, ma abitata da molte presenze, ospite di molti interlocutori, una lirica che al gesto dell’espressione preferisce la comunicazione. Lo si percepisce dalla preoccupazione costante – come lei stessa riconosce – per “l’intensità della parola, semantica, fonetica, grammaticale”, per “la parola figurata, una parola simile a un’immagine, cioè che consente d’intrattenere una lunga comunicazione con lei”, poiché “nel deforme, nel male, nel caos non c’è immagine, forma, e per questo la coscienza non può a lungo conversare con essi”. Le immagini della Sedakova, al contrario, indugiano a conversare nella mente del lettore, schiudendo orizzonti mai contemplati prima:
Ancora un poco conversa
con la nostra luce di casa,
sole di tenerezza e profondità,
sole che lasci la terra,
primo, ultimo
sole.
L’autore condivide con il lettore le regioni inesplorate a cui è condotto dalla poesia, dal farsi stesso della poesia, che, come rivela l’etimologia greca, non è altro che poiesis, opera dell’uomo, nel doppio senso del genitivo, opera che l’uomo fa e opera che fa l’uomo, lo accompagna sulle vie di un’incessante trasfigurazione. In questa luce – luce di una ricostituita interezza, di un segreto legame di tutte le cose, della scoperta della loro “inclinazione a essere amate”, del “loro inesauribile desiderio di donare” – sono rivisitati anche i tropi tradizionali del discorso poetico: “Nel paragone e nella metafora non ci sono solo due membri evidenti: più importante di questi due è un terzo, l’elemento che li accomuna, il medio del loro contatto, la somma delle comparazioni”.
“Metabola” è il termine coniato da Michail Epštejn per definire lo strumento espressivo di questa intuizione, che la Sedakova condivide con i poeti chiamati dallo stesso Epštejn “metarealisti” (tra gli altri Viktor Krivulin, Ivan Ždanov, Aleksandr Eremenko, Elena Schwarz, Arkadij Dragomoščenko). Il “metarealismo”, come lo descrive il critico russo, mette in comunicazione non piani di realtà gerarchicamente ordinati, ma una molteplicità di realtà, quella dischiusa dalla visione di una formica o da una formula matematica, mostrandone “l’originaria complicità e la mutua compenetrazione, vale a dire, l’autenticità e l’inevitabilità del miracolo”. In questo, la “corrente metarealista” si contrappone ai “concettualisti” di Mosca (Dmitrij Prigov, Lev Rubinštejn), per i quali la realtà si dissolve completamente nell’irriverente gioco decostruttivo dei concetti, puri nomi di inesistenti universali. È l’altra via, quella intravista e scartata da Brodksij, “la via di un’ulteriore deformazione, la poetica delle rovine e dei detriti, del minimalismo, della voce strozzata”. La via del cinismo, che nel devastato spazio postsovietico (nel nostro spazio postmoderno dei conflitti globali) è sembrata a molti l’unica percorribile.
Tanto più contemporaneo, e paradossalmente inattuale, è allora oggi il viaggio sedakoviano, dove la stella che, come i magi, guida il lettore nel cammino “per via oscura”, è la parola stessa. Lo aveva scoperto nei terribili anni ’30 Osip Mandel’štam, leggendo Dante: “La poesia si differenzia dal discorso automatico per il fatto che ci ridesta e ci scuote in mezzo alla parola. Allora quest’ultima ci appare molto più lunga di quanto non pensassimo, e noi ricordiamo che parlare significa sempre trovarsi in cammino”.
In cammino verso dove?
La poesia della Sedakova – come ben vide Averincev nel saggio che accompagnava la prima edizione dei Versi – ha preso sul serio il punto di partenza della strada percorsa per un lungo tratto dallo stesso Mandel’štam e dall’Achmatova; strada che, come si conclude uno dei racconti della Kolyma di Varlam Šalamov, “ritornava dall’inferno”. Non è forse un caso che la musa dell’Achmatova sia la severa musa che dettò a Dante le pagine dell’Inferno, e che alla prima Cantica facciano soprattutto riferimento Blok e le riletture mandel’štamiane. Ma l’inferno non è l’inizio del viaggio dantesco, fa notare la Sedakova lettrice (e traduttrice) del grande Fiorentino: quel viaggio – il viaggio del poeta – è deciso in paradiso, e nel Paradiso si conclude. Al Dante russo – e forse anche al Dante postmoderno – manca ancora l’uscita dall’Inferno.
Una fuoriuscita che si intravede nell’ultimo Pasternak, nel quale – osserva la Sedakova critico – “la nuova arte cristiana parla la lingua della creazione, del risanamento, della vita”, parla delle cose ultime con il pathos del vivente in quanto vivente, parla della pietà (“E la compassione governa i mondi”), con la stessa intonazione del verso che suggella la Commedia (“l’amor che move il sole e l’altre stelle”); e che, aggiungiamo noi, riecheggia in più di una lirica della Sedakova poeta:
È ora di andare là dove
Tutto è fatto di compassione.
L’uscita dall’inferno è stata possibile, perché c’è stato chi è rimasto all’inferno senza disperare, ma perdonando i propri nemici; chi è ritornato dai lager portando con sé non odio, ma “un ponticello oscillante di versi” per salire sulle “nubi a portata di mano”, giurando soltanto “che né invidia né rabbia / porteremo con noi su nel cielo”, come Šalamov.
È una speranza pagata a caro prezzo, quella che ha guardato negli occhi l’infamia senza cedere alla banalità del male. Sì, il male è banale: non possiede la profondità dell’essere, ma incrosta impercettibilmente la superficie delle coscienze. In un suo recente saggio, Ol’ga Sedakova scrive che il grande pericolo, nel totalitarismo di ieri come nell’incombente barbarie di oggi, è la medietà, ovvero l’incapacità dell’immediatezza, l’uniforme mediocrità della “semplice gente ignorante”, che non vuole saperne della complessità; l’essere “come tutti”, l’indifferenza alla profondità, l’ovvia certezza dell’uomo medio, l’uomo mediato dal pensiero unico, l’uomo mediano dei sondaggi d’opinione, l’uomo mediatico, l’uomo mediocre:
quasi viene paura a pensare
dove si è stati e a che farsi,
con chi e di che ad abboccarsi.
Ora, nota la Sedakova, l’artista si occupa invece dell’allargamento del cuore, del ristabilimento di quella “norma umana” distorta dall’abitudinarietà; riporta l’attenzione “su quel male invisibile, di cui la morale quotidiana si dimentica”, il vizio nascosto della mediocrità, prima che esso “diventi padrone della situazione”. E uno dei sintomi di questa malattia dello spirito è l’incapacità di sperare. Settanta, cinquanta, trent’anni fa la poesia perseguitata rendeva il suo servizio alla libertà e alla profondità, all’audacia e alla pietà; oggi l’arte trova ancora il suo senso nel rendere “servizio alla speranza”: “Quella liberante delizia che noi, lettori, spettatori, ascoltatori, sperimentiamo nell’incontro con una grande opera d’arte, consiste nell’esperienza di una certa segreta speranza. Essa ci fa uscire dalla sorda, chiusa – e in qualche misura comoda – disperazione … ci fa uscire dall’abitudine, dalla vita senza principio, dalla dimenticanza del principio”. Ci fa uscire dalla narcisistica ripetizione dell’uguaglianza a se stessi: il nostro vero “io” non è nel passato, ma nel futuro – a “noi stessi” non siamo ancora giunti.
La speranza, scrive la Sedakova, è legata in Dante alla memoria, alla memoria della gloria futura, che essa fermamente attende:
“Spene”, diss’io “è uno attender certo
della Gloria futura… (Paradiso XXV,44).
La speranza trasforma gli occhi che guardano il divenire inesorabile delle cose, rendendoli capaci di risalire la corrente e scorgere che “il fiume del tempo, prima di toglierci i doni, ce li porta”. Nella speranza si comprende finalmente che “il tempo non è la semplice antitesi dell’eternità, ma appartiene all’essere, e non solo al dissolversi dell’essere”. Il detto dell’Angelo dell’Apocalisse, “non ci sarà più tempo” (Ap 10,6), significa allora che, come la fede e la speranza “cesseranno”, così nel tempo e nella speranza si deve andare là dove queste realtà “non ci saranno” più, e regnerà solo la carità.
Per questo, a differenza dell’angelo della storia di Walter Benjamin, che “ha il viso rivolto al passato” e negli eventi “vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi”, l’angelo rosa della cattedrale di Reims, nell’omonima lirica de Il principio del libro, sorride. Non è cieco alle catastrofi della storia (“la peste, la fame, il tremoto, il fuoco, / l’invasione straniera, l’ira su di noi accesa”), ma ne vede l’apocalissi, la rivelazione del senso. La “tempesta che spira dal paradiso, e si è incagliata nelle sue ali, ed è così forte che … lo spinge irresistibilmente nel futuro”, non è la tempesta del progresso, come in Benjamin, ma l’irruzione inattesa di “un’incredibile felicità”.
Questa fine è un inizio – speculare all’interrogativo che chiude il Journey of the Magi di Eliot (che Ol’ga Sedakova conobbe e tradusse dopo aver scritto il suo viaggio):
… were we led all that way for
Birth or Death?
La fine è l’inizio di una vita nuova. Lo stesso Eliot aveva notato (in The Use of Poetry and the Use of Criticism, del 1933), che “il vantaggio essenziale per un poeta non è avere a che fare con un mondo bello: è, piuttosto, riuscire a vedere al di là della bellezza e della bruttezza; è riuscire a vedere la noia e l’orrore, e la gloria”. È riuscire dall’inferno a rivedere le stelle; a vivere in vista della fine. Cioè in vista del centro; che, insegna la Sedakova, è un altro modo di dire “in vista del cuore”: con la vista del cuore. O, se vogliamo, secondo la congettura di Chlebnikov così famigliare alla poetica sedakoviana,
ci sono parole con le quali si vede. |