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Da Tristano e Isotta | (1978-1982) | |
4. Il figlio delle muse | E strane immagini
or fanno ingresso dalle porte chiuse,
si daranno un nome
e a me daranno un compito.
E verseranno ingenua la mia mente
come sabbia di mare,
ninnandola come fosse una culla
o intrecciandola a guisa di paniere.
E chiederanno:
che vedi?
E io dirò:
io vedo, come
s’infrangono le onde sulla riva.
S’infrangono le onde, senza fine,
alta l’onda si leva –
scrigno all’anello più prezioso
e cantina custode dei vini.
Inghiotta le visioni sue il profondo,
rombante come stufa,
e si porti via –
dove?
dove guardano gli occhi,
dove comandano –
il mio spirito, dove?
Come posso saperlo, dove.
Perché l’abisso meglio di un pastore
pascola le sue greggia:
invisibili a tutti,
scorazzano pei colli,
sfavillan come stella.
Il loro fitto rintoccare,
la loro lattea via
come mercurio si disperde,
e dilaga fin qua –
perché misero è il popolo e scarno il nostro dire,
perché tutto qui giunge e il mondo ci ha respinto. –
Come buttò l’anello Policrate
per vincere il destino:
chi d’essere povero
e chi d’aver ricchezze,
chi d’andare in guerra
o di pascer gli armenti –
ma cento volte più prezioso
è quel, che ti ritorna indietro,
minuscolo granello.
Prendi il tuo anello, Policrate,
non per questo hai vissuto.
Chi di più ha lasciato,
questi è più caro agli uomini.
E nelle ulcere nere, e nei peccati
ricrea – in anneriti focolari
pur lo stesso calore, lo stesso bagliore,
dei natii cieli l’allegro crepitare.
S’infrangono le onde, senza fine,
alta si leva l’onda –
scrigno all’anello più prezioso
e cantina custode dei vini.
Quando le sue visioni inghiotte il profondo,
diremo:
non c’è nulla da perdere! –
ed esso lo conferma.
E i morti non turba
l’accidentale povero ardore –
son loro a suggerirgli
quel che ha dimenticato.
Lasciati i loro affanni,
si affollano alle porte,
con racconti, coi quali
si trascorre il Natale –
parlan d’oro e di gemme,
della luce che sorge dal niente. | Traduzione di Giovanna Parravicini | |
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| | 4. Il figlio delle muse |
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