Dante. Inferno. Canti XII–XIV | Università Statale di Milano 02.04.2008 | Prima di parlare di quei canti dell'Inferno, che mi sono stati assegnati da discutere, vorrei fare alcune osservazioni preliminari.
Primo. Per me è un grande onore prendere parte alla vostra maratona dantesca, nel numero degli esperti e studiosi di Dante. L'onore è per me troppo grande, in quanto io a questa schiera non appartengo. Non sono Dantista e non sono neanche Italianista. Non sono più che un lettore di Dante: il lettore straniero, che ha imparato l'italiano proprio per leggere Dante in originale. Che cosa leggo in Dante oramai da molti anni? Più o meno ciò che vi lessero i poeti del XXesimo secolo: T. S. Eliot, Paul Claudel, in parte R. M. Rilke, O. Mandel'štam. Tutti questi poeti hanno avuto un gusto particolare per il nuovo e in Dante hanno visto la fonte di quella novità che il loro tempo ricercava. E anche al nostro tempo è necessaria la sua, per cosi dire, nuova novità. Noi possiamo sperare di trovarla in Dante in quanto Dante non è solo Arte che genera arte' (così è stato intitolato il Simposio dantesco a Firenze nel 2006). Egli è anche Pensiero che genera pensiero. E di più: Esperienza che genera esperienza. L'ultima cosa, forse, per me è più importante delle altre.
Nuovo, novo, novello è una delle parole fondamentali di Dante. La forza di significato di questa parola ha in lui un'ampiezza biblica, come una eco dell'uso di questa parola nei Profeti e nell’Apocalisse, il senso che reca nel «Nuovo Testamento». Ho in mente qui non solo la Vita Nova. In ogni sua opera Dante annuncia una certa novità mai udita, la quale egli sta per comunicare, una tale novità che cambierà il mondo. Fra i numerosi significati di novo il più dantesco può essere inteso come «inusitato», «incredibile», «miracoloso». Non soltanto l'oggetto della Divina Commedia contiene qualcosa di nuovo mai esistito, mai visto da alcuno fino a Dante, non solo la sua lingua e la forma sono incredibilmente nuovi, e resteranno nuovi per sempre. La novità principale qui è un'altra: l'eroe-autore va incontro ad un se stesso nuovo: trasfigurato, transumanato, divino. Alla fine del Purgatorio, dopo l'immersione nel Letè , Dante comunica:
Io ritornai dalla santissima onda
rifatto sì come piante novelle
rinovellate di novella fronda
(Purg.XXXIII, 147-149).
Ecco, mi pare, sia quella novità che a me, lettore dei nostri giorni, risulta più interessante di tutto in Dante.
Seconda osservazione preliminare. Confesso che prima della vostra proposta di parlare dei Canti dell'Inferno io frequentavo questa cantica meno delle altre. Semplicemente per il fatto che la sua lettura è una prova spirituale pesante. Ma anche perché Dante per il lettore russo (così come per i lettori di tutto il mondo) è quasi esclusivamente l'autore dell'Inferno. E ciò è triste, anche perché deforma la comprensione dello stesso Inferno. L'Inferno di Dante, come ha osservato Paul Claudel, incomincia nel Paradiso. Prima di tutto perché l'Inferno, nella convinzione di Dante, è una creazione della Trinità.
Fecemi la divina potestate,
la somma spaienza e'l primo amore
(Inf. III, 5-6).
Ma non soltanto per questo. Proprio quella convinzione teologica è cosa discutibile: se Dio non è il creatore della morte e del peccato, allora anche l'Inferno, il luogo in cui morte e peccato realizzano sopratutto le loro azioni, non è stato creato, in verità, da Lui? L’Inferno incomincia nel Paradiso anche in un’altro senso: lo stesso viaggio di Dante viene progettato e «autorizzato» nel Paradiso come un precedente eccezionale. Di questo, del suo novo uffizio dei cieli:
Tal si partì da cantare alleluia
che mi commise quest’uffizio novo
(Inf. XII, 88-89).
in tutti i cerchi dell'Inferno ricorda Virgilio. Questo lasciapassare, rilasciato a Dante nel Paradiso, è il suo salvacondotto nella profondità dell'Inferno.
Inoltre, se tutti gli abitanti dell'Inferno si trovano là è per il fatto che hanno commesso questa o quell'altra «ingiustizia», e dunque è indispensabile sapere quale «legge», quale «giustizia» essi hanno con ciò offeso. Giustizia, giusto, così come la novità, nuovo, sono delle parole fondamentali di Dante e tale da acquisire in lui una ampiezza biblica di senso. Nella sua sete appassionata di giustizia Dante è confratello dei profeti e allievo fedele di Virgilio, che brama il ritorno sulla terra della Virgo Iustitia, Vergine Giustizia.
Penso che il compito più rilevante di una lettura contemporanea di Dante sia quello di restituire quel legame del suo Inferno con il Paradiso e, seguendo il suo racconto, uscire dall'Inferno.
E per uscire dall'Inferno -e questa sarà la mia terza e ultima osservazione preliminare- è indispensabile tenere a mente la integrità di tutto il cosmo di Dante. Integrità che non era stata creata da lui soltanto, dall'esule fiorentino. Egli ricevette una eredità enorme. Altra cosa è il fatto che non tutti avendo ricevuto una tale eredità sono capaci di farne buon uso. Dante fu capace come, in verità, nessun altro. Nei grandi autori noi siamo abituati a valutare quello per cui si distinguono dai loro contemporanei, e quello che come dire li «conduce fuori» dalla prigionia del loro tempo, dalla suo limitatezza, dai suoi pregiudizi. Nel caso di Dante con la sua grande libertà e coraggio riguardo alle opinioni comuni, ragionamenti di tal genere sono più che giusti. Ma questa è solo una parte del rapporto tra il genio e il suo tempo. L'altra consiste nel fatto che ogni tempo assegna a colui che lo abita possibilità particolari, e l'epoca di frontiera, quale fu quella di Dante, gliene assegnò in modo speciale. I doni dell'epoca di Dante in questo senso sono stati di valore inestimabile. La cultura europea non possederà mai più un tale cosmo di senso, così ampio, integro e centralizzato. Proprio per questo la poesia è stata capace di riassumere in se la politica, teologia, filosofia, scienze naturali, storia, la maestria degli artigiani. Il fenomeno Dante è stato possibile solo in quella epoca. Dante –politico propone un progetto di un impero mondiale perchè nella sua mente questa universalità già esiste. Dopo, gia in Petrarca1, questo cosmos inizia a parcellizzarsi, come un Impero le cui parti essendosi separate perdono il loro contatto con quella che un tempo fu la capitale comune, e la capitale comune era La Rosa Mistica.
Inutile precisare che i doni del tempo non vengono dati invano. Diventare contemporaneo del proprio tempo è sempre il lavoro e l'impresa eroica che noi vediamo osservando la vita di Dante. Egli denunciò il proprio tempo, non trovò in esso la pace e la giustizia. Ma egli seppe issare la vela del suo genio in modo tale che il vento che ispirava il suo tempo soffiasse sulle sue vele. A noi, suoi lettori, l'obbligo di ricordare la natura olistica delle immagini di Dante. E se noi non abbiamo conoscenze abbastanza profonde di quei fondamenti sui quali Dante costruisce la sua “Summa” poetica - e cioè della poesia classica, di filosofia, delle Sacre Scritture, di teologia, e di molto altro ancora - noi non dobbiamo dimenticare la presenza di questi fondamenti in tutto ciò che Dante dice, e non possiamo comprimere le immagini dantesche in una trascrizione psicologica, o sociologica oppure estetica. E soprattutto siamo tenuti a ricordare che ogni particella del suo mondo è centripeta e “per il mare dell'essere” naviga verso il suo fine. Ad eccezione dell'Inferno. L'Inferno in Dante è sopra ogni cosa ed essenzialmente una condizione di isolamento dall'insieme e una caduta dal movimento centripeto.
Con ciò termino la mia introduzione un po' lunga e passerò ai Canti XII, XIII e XIV. Questi tre canti si svolgono nel Sesto Cerchio, tra i violenti; il cerchio è diviso in tre gironi.
Canto XXII. «Le fiere snelle»
E dunque noi ci troviamo nel Basso Inferno, nella Città di Dite, dove sono tormentati i violenti e i fraudolenti, cioè coloro che - diversamente dagli incontinenti dell'Inferno Alto - hanno compiuto il male con la partecipazione della propria volontà (i violenti), e del proprio intelletto (i fraudolenti). E anche diversamente dagli ignavi del Vestibolo dell'Inferno, cioè coloro che hanno preferito in generale non compiere nulla. Il primo girone di questo cerchio è destinato ai violenti contro il prossimo:
Onde omicidi e ciascun che mal fiere,
guastatori e predon…
(Inf. XI, 37-38).
I primi fra loro sono i tiranni. Dante sa, che la violenza del potere, dello Stato è più orribile di quella del privato.
Come sappiamo dai canti precedenti, l'ingresso nella Città di Dite è eccezionalmente difficile. Soltanto l'intervento del Messaggero celeste permette ai nostri poeti di superare la resistenza dei diavoli-custodi, Virgilio qui è impotente. È chiaro che per lui non soltanto il Paradiso è inaccessibile, (cosa che nella logica di Dante è triste ma è naturale), ma anche la profondità dell'Inferno! Avanti, in ogni nuovo cerchio noi assistiamo ad un superamento della resistenza feroce del custode infernale (nel Canto dodicesimo è il Minotauro). Questa difesa dei confini del male ci induce a riflettere. I guardiani custodiscono i dannati come fossero dei galeotti, affinchè essi non possano scappare, questo è chiaro. Ma quale tesoro essi difendono dagli estranei, perché, contro ogni aspettativa, questa entrata è così difficile? Sappiamo bene, che l'entrata generale nell'Inferno è agevole, ed è sempre aperta. Così in Virgilio:
Noctes atque dies patet atri ianua Ditis,
(Di notte e di giorno la porta del vestibolo di Dite resta aperta. (Aen.VI, 127))
così è anche in Dante. Ciò che è estremamente difficile invece è uscirne:
Hoc opus, hic labor est.
(Questo è il lavoro, in ciò sta la fatica. (Aen.VI, 129))
Se si legge il soggetto dal punto di vista allegorico: l'accesso costante all'Inferno significa che sempre aperta è per l'uomo la possibilità di cadere nel peccato. Ma perchè è così difficile l'ingresso nel Basso Inferno? Qui bisogna osservare che Dante segue Virgilio. Nel Sesto Canto dell'Eneide sia a lui che alla Sibilla è interdetta l'entrata nella casa dell'oltretomba dei criminali. Nella torre di Dite,
Nulli fas casto sceleratum insistere limen.
(Ad alcuno che sia casto è consentito di oltrepassare lo scellerato limite. (Aen.YI, 563)).
Il motivo di questa interdizione in Virgilio rappresenta l'innocenza del crimine. In Dante noi possiamo supporre un motivo diverso. La ragione, la ragione naturale (la quale come tutti sanno è incarnata dalla figura di Virgilio) non può conoscere la profondità del male, così come essa non conosce la beatudine celeste. Il male è anch'esso mistero, così come lo è la santità. Per comprenderlo è infatti indispensabile la rivelazione divina. Ecco uno degli esempi che, come abbiamo detto, indica che l'Inferno dantesco comincia nel Paradiso.
Se noi seguissimo il ricercatore inglese, vedremmo nella composizione dantesca, nel suo Inferno, «la rivelazione della natura di un peccato senza pentimento»2, noi capiremmo che i tormenti infernali ci danno la possibilità di vedere non tanto la «vendetta» di Dio, «la giusta penitenza» e cioé qualcosa che succede dopo il peccato, in risposta ad esso, ma il peccato proprio nel suo vero aspetto, il peccato, quale esso è quando niente gli fa da schermo. Il vento che trasporta Paolo e Francesca li trascina non dopo ciò che essi hanno compiuto: ciò succede in effetti per loro in quello stesso momento del loro atto illegale d'amore. La loro passione è quello stesso vento. Il fiume che ribolle di sangue, nel quale sono immersi i tiranni - ognuno nella misura del loro crimine - del Canto XII è quella realtà delle loro azioni.
Il fatto che la profondità dell'Inferno resista alla conoscenza dell'uomo è una cosa significante. Per compiere il peccato è necessario non vedere la sua natura così come questa natura si apriva agli occhi di Dante. La rivelazione del male consiste non soltanto in ciò che noi vediamo, in quanto è in sé brutto e indecoroso, ma anche nel fatto che esso è una grande sofferenza per colui che questo male lo compie. Egli può anche temporaneamente non percepirlo, ma ciò che in lui soffre e muore, è la sua umanità, il progetto divino su di lui. Normalmente l'individuo ha bisogno di una gran quantità di spiegazioni convincenti, di scuse, di cause e di fini per compiere il male come qualcosa di «indispensabile», qualcosa di utile per qualcos'altro ancora. In breve, ha bisogno di rappresentare il male come uno strumento, un mezzo di servizio. Vale a dire, bisogna pensare che tu, in sostanza, fai qualcosa di diverso da quello che stai facendo. Per esempio, tu non uccidi migliaia di innocenti, ma realizzi -per mezzo della loro liquidazione- un grande progetto di una felicità futura dell'umanità o della Patria (come si proclamava nell'URSS e nella Germania nazista). Quest'ultimo esempio è particolarmente appropriato per il Canto XII. Le figure «grandiose» dei dittatori del XXesimo secolo, (Stalin, Hitler, Mao, Enver Hoxha e altri) si troveranno come a casa sua nel bollore di sangue del Flegetonte dantesco e probabilmente supereranno il leggendario Attila.
À propos. Quanto alla violenza massificata «dall'alto» da parte del potere, quanto alla tirannia, la morale del nostro contemporaneo «dopo Auschwitz e il Gulag», coincide completamente con quella di Dante. Probabilmente questo è l'ultimo tipo di male che da noi resta indubitabile, proprio questo è un male assoluto per il nostro uomo contemporaneo.
Negli altri casi di violenza: i suicidi, gli usurai (e cioé infatti tutti i finanzieri: ricorderemo fino a che punto portò Ezra Pound il suo odio «dantesco» per la usura!), e anche i sodomiti -queste posizioni sono molto diversificate. Ma penso che oggi non staremo a discutere le differenze fra i giudizi morali dell'umanesimo contemporaneo, con la sua fondamentale richiesta di tolleranza, che porta ad un agnosticismo morale, e le opinioni decisamente non-tolleranti di Dante. Noi parleremo soltanto di ciò che Dante ha scritto. Ma fra l’altro rileviamo che se le immagini di questi peccatori, come la dolce Francesca, il nobile Pier Della Vigna, l'elegante Brunetto Latini, provocano la nostra più grande compassione e il desiderio di «salvarli» dal Cerchio infernale, da un Dante spietato, questo si verifica solo per il fatto che proprio lui, Dante, per noi tali li ha rappresentati. Egli nutriva pietà per quei suoi eroi non meno dei suoi lettori. Egli si comportò con loro non diversamente da come fecero i tragici greci con i loro protagonisti, oppure come fece Virgilio con Turno e con Didone. Probabilmente per un artista contemporaneo questo punto di vista complesso - il punto di vista di una responsabilità epica oppure tragica di fronte alla realtà- resta inacessibile. Egli «salverà» (in senso morale) quelli che ama ed «ucciderà» quelli che non ama.
Ma nel Canto XII non c'è niente di complicato quanto a ciò. Qui Dante non incontra personalmente nessuna difficoltà morale. La tirannia, e cioé la violenza e l'ingiustizia nella forma dello Stato per lui è oltremisura odiosa, ma non per il fatto che è fautore dell'anarchia come succede di solito in casi simili, ma proprio per la ragione opposta: proprio perché a lui è cara l'idea di un potere giusto e nobile e unitario (cfr. «De Monarchia»).
Egli non vuole parlare con nessuno dei condannati al sangue che ribolle del Flegetonte. Per lui personalmente non sono interessanti.
Torniamo per l’ultima volta all’entrata difficile nello spazio del male. All’entrata difficile a Dite, e all'entrata resa difficile in ogni suo nuovo cerchio. Nel nostro caso -al Minotauro nel dirupo all’inizio del Canto XII, e dietro di lui - alla schiera di centauri-sentinelle (e quanti di questi ospiti presi dal mito, dal mondo ctoneo della arcaica Grecia, Virgilio e Dante hanno già incontrato prima!). Con i «suoi» mostri pagani Virgilio riesce a cavarsela, oppure a trovare un accordo, e così che essi possono persino, come dei «mostri buoni» nelle favole, prestargli un servizio, come il Centauro Nesso per ordine di Chirone, il quale accompagna i viaggiatori fino al guado e trasporta Dante sulla groppa attraverso il Flegetonte. I rapporti tra Virgilio e i Centauri si può dire siano un idillio all’interno dell’Inferno. Tra lui e Chirone c’è una qualche solidarietà. Ma quello che Virgilio, come noi sappiamo, non può fare è di cavarsela con i diavoli cristiani. La discesa nella profondità dell’Inferno, nella profondità del peccato e del male è così difficile perché questo non è nient’altro che una via per la salvezza. E non soltanto per la salvezza personale di Dante, secondo l’intenzione di Beatrice, ma anche una certa possibilità di salvezza per il suo lettore. Vedere il male nella sua aperta natura significa pur qualcosa! Nessuno di coloro che abbia letto veramente l’Inferno di Dante, potrà più ormai scegliere senza problemi quei tipi di male che Dante ha descritto. Le immagini della sabbia infuocata e della nevicata di fiamme, i fiumi fatti di sangue che bolle, gli alberi e i cespugli che stillano sangue, le immagini di persone poste in una battuta di caccia (io nomino soltanto l’immagine dei nostri canti, dal XII al XIV) come la realtà vera del peccato (e non soltanto una punizione che fatalmente segue ad esso) per sempre si inscrivono, per parlare con la lingua di Dante, nel libro della nostra memoria. Spiegazioni dettagliate di questo o di quell’altro peccato, qualsiasi predica morale, qui sono superflui. Si inscrivono? Io direi che: queste immagini si scolpiscono nella pietra della nostra memoria. La forza stessa della scrittura è la lezione morale di Dante.
In ogni episodio, in ogni passaggio questa forza della scrittura si mostra in modo diverso. Il costante e primo strumento di Dante è, senza dubbio, la sintassi. In una sintassi così «articolata» nessun poeta era stato capace di esprimersi. Io comprendo questa sintassi diversamente da Mandel'štam, per il quale la cosa più importante di tutte era la imprevedibilità dell’andatura dantesca, il suo incatenamento puramente fonetico. Ma queste frasi, insolitamente lunghe e ramificate, vengono direzionate da una logica ardente. Guardiamo nella seconda frase del Dodicesimo Canto che si snoda lungo dodici versi, oppure quattro terzine!
Qual è quella ruina che nel fianco
di quà da Trento l’Adice percosse,
o per tremoto o per sostegno manco,
che da cima del monte, onde si mosse,
al piano è sì la rocca discossa,
ch’alcuna via darebbe a chi su fosse;
cotal di burrato era la scesa;
e ‘n su la punta della rotta lacca
l’infamia di Crete era distesa
che fu concetta nella falsa vacca;
e quando vide noi sè stesso morse,
sì come quei cui l’ira dentro fiacca.
(Inf. XII, 4-15).
È una sola proposizione! Essa è divisa simmetricamente in due metà. La descrizione del panorama dell’aldilà è fatta attraverso il suo paragone a quello della terra. Dante non spreca parole: a che gli servirebbe descrivere? Anche così il lettore capirà: egli l’ha visto, oppure qualcuno glielo ha raccontato. Il primo membro del paragone, il dirupo lontano dell'Adige, per il quale non si può discendere, occupa i primi sei versi. Esattamente metà della frase. Il panorama ampio, e lo sguardo profondo va dall’alto al basso. La seconda metà della frase comprime la prospettiva: all’inizio fino alla grotta su questo dirupo (terza terzina). E la ultima, la quarta terzina, rappresenta un’accelerazione catastrofica della compressione dello spazio e del tempo. L’attenzione si focalizza su colui che giace nella grotta, il mostro Minotauro, «infamia di Creta» -e quindi comprime il Minotauro fino al momento del suo concepimento nella «falsa vacca»! Ma non è la fine. Il Minotauro, ora nato e ucciso da Teseo, e adesso guardiano del Sesto Cerchio, affonda i denti su se stesso, fiacco della sua ira interiore. La violenza si è arrotolata su un punto ed è stata sparata contro se stessa. L’ultima parola di questa frase che viene da lontano è: fiacca. Il colpo mortale è esatto. Il Minotauro è stato vinto dalla andatura e dalla strategia di questa frase - prima che con esso parli Virgilio. L’apparizione di saette e degli archi dei Centauri l'aveva già annunciata. Tale è la sintassi di Dante: essa sorpassa e preannuncia l’andatura dell’evento.
Nell’epidosio successivo, la forza della scrittura dantesca si rivela in un altro modo. Virgilio, di nuovo con una sola frase, la quale si dilunga anch'essa per quattro terzine e si ramifica con delle frasi subordinate («quando», «se», «cosi che», «per il fatto che») spiega a Dante l’origine di questa frana. Tutto era successo dopo la discesa di Cristo nell’Inferno. Adesso noi vediamo Dante come un virtusoso di empatia. Egli pensa dal punto di vista di Virgilio. Egli ci propone una traduzione incredibile di un avvenimento cristiano in una lingua del pensiero pagano, in una lingua della cosmologia e fisica empedoclea. E come se non in questo modo potrebbe comprendere ciò, che si è verificato, un pagano coltivato? L’equilibrio del cosmos, costituito dall’armonia delle forze dell’amore e dell’odio (oppure della forza di attrazione e forza di repulsione), che si oppongono, è stato sconvolto. La forza dell’amore ha vinto la forza di repulsione - e a questo di solito segue la distruzione del mondo, il ritorno nello stato caotico. Effettivamente tutto ciò è quasi esatto ma –in questa lingua fisica o metafisica– si vede come in uno specchio della divinazione.
L’episodio con i Centauri e Chirone è, come ho già detto, una rara pausa di bonarietà tra gli orrori dell’Inferno. In esso non si può non percepire un’ombra di comicità (basta immaginare in modo concreto come Chirone si gratta la barba con la saetta o come la schiera di Centauri dalla riva tira con l’arco su quelli che tentano di sollevarsi più di quanto loro sia consentito, oppure come Dante in groppa al centauro oltrepassa il Flegetonte, il fiume virgiliano, che egli ancora non riconosce). Qui, come in molti altri episodi, Dante mostra la sua maestria nel continuare il gioco, che è stato iniziato dai vecchi poeti: egli viaggia in mezzo ai loro paesaggi, in mezzo ai loro personaggi come se fosse per la seconda volta, e fa girare di nuovo l’arsenale della fantasia classica. Con una serietà ultimativa i suoi rapporti con la poesia classica precristiana, e il rapporto di questa poesia con la verità saranno spiegati nel Paradiso Terrestre. Ma il nostro discorso non è su questo.
Il motivo ricorrente del Canto XII è l'incredibile regolamentazione della violenza sui violenti. Questa regolamentazione meccanica è infatti assurda e irrazionale: in primo luogo, perchè il lavoro di osservarla è stata affidato a dei mostri che sono come un ibrido tra l'uomo e la fiera; in secondo luogo, perchè con la misura mecanica qui viene misurato ciò che a questa misurazione non appartiene: il sangue e il tormento. L'Inferno è un luogo chiuso e regolare come un lager oppure come uno stato totalitario. Di realtà simili Dante non avrebbe potuto conoscere nella esperienza del suo tempo, dove la crudeltà aveva un carattere anarchico e spontaneo. A differenza dei paesaggi infernali, per la disciplina dell'Inferno Dante non ha ancora niente sulla terra con cui poterla paragonare.
Questo, ripeto, è un raro Canto nel quale noi non rileviamo la più minima compassione, persino interesse di Dante per coloro che sono sottoposti alle torture infernali. I tiranni odiosi, gli assassini, i rapinatori. Di essi sono rimasti soltanto dei nomi.
Canto XIII. “Anima lesa…”
Il Centauro Nesso, dopo aver traghettato Dante, non era ancora scomparso alla vista - e tutto già si è trasformato. Ci troviamo in mezzo ai violenti contro se stessi: i suicidi e gli scialacquatori. Agli scialacquatori viene dedicato un breve episodio - un intermezzo dell'orribile caccia, la quale interrompe la conversazione di Dante con due suicidi, l'albero e il cespuglio. Dunque noi ci troviamo in una selva oscura, la quale ci ricorda le altre due selve del poema, la selva selvaggia dell'inizio narrazione e l'antica selva del Paradiso Terrestre sul colmo della montagna del Purgatorio. In tutte queste scene il bosco in Dante ha il significato di una condizione di qualche profonda confusione, di perdita dell'uomo. Ma qui adesso bisogna aggiungere ancora il motivo di un orribile nascondino, di un rifugio segreto che cercano gli animali predatori. Gli uccelli di questo bosco sono le orribili Arpie. A Dante sembra che questo bosco, nel quale si levano i lamenti, nasconda qualcuno in se. Virgilio tenta di suggerirglielo: eppure hai tu letto la mia Eneide? ricordi qualcosa in essa che era incredibile? Ma questo non l'aiuta. Allora tocca a Virgilio di ricorrere ad un esperimento: “Recidi un ramo - e capirai!” (vale a dire, ripeti quello che ha fatto il mio Enea con il mirto nel Terzo Canto). Dante gli dà retta, e allora in quel momento sente un grido umano; dal tronco cola del sangue. Con orrore egli comprende: questi alberi sembrano morti, ma sono anime e non piante. È sufficiente una violenza, la più piccola, perchè il sangue e il discorso si mostrino in superficie: un discorso di lamento e di biasimo. Con gli uomini così non ci si comporta! Persino con le serpenti si può essere più delicati. Ma noi siamo stati uomini... “Uomini fummo...” (Inf. XII, 37).
Il discorso, il processo di espressione verbale per le anime dell'Inferno, spesso è traumatico, ma un caso più eclatante di questo albero, che stilla sangue e parole, noi non lo incontreremo.
Nel vaso del Canto XIII è stata rinchiusa una delle immagini più inquietante della poesia mondiale: trasformato in un albero è il nobile suicida, fedele e calunniato consigliere dell'imperatore Federico II. La prima fonte di questa immagine è il Polidoro virgiliano ucciso e trasformato in mirto. Stillando del sangue scuro Polidoro-mirto parla ad Enea mentre spezza un suo ramo:
Quid miserum, Aeneas, laceas?
(Perché Enea laceri me, misero? (Aen. 3. 41))
Ma Virgilio tocca qui un soggetto il più antico che è conosciuto al folclore di tutti i popoli: si tratta di quelle leggende su un uomo (o una donna), che essendo stato ucciso - di solito senza colpa - viene trasformato in una pianta parlante (spesso con lo scopo di testimoniare sul suo assassino). Noi sentiamo in queste leggende l'intuizione di un legame profondo e misterioso, di una identicità sui generis di uomo e albero. Inoltre il tema di quelle leggende è quello di un omicidio celato e quindi svelato. Così appunto è anche in Virgilio. Il soggetto di Dante è più complesso. Il suicida-albero diventa testimone contro se stesso, egli stesso è un omicida. Testimone contro lui sarà in seguito il suo proprio corpo, quel corpo che egli ha rifiutato e il quale, alla fine dei tempi, sarà impiccato sulla sua “ombra molesta” (confronta il biblico «maledetto è colui che pende dall'albero»). L'unione contronaturale della vittima e del suo carnefice in una persona sola - o altrimenti: lo sdoppiamento contronaturale di un essere umano è mostrato a noi in tutta la sua evidenza. Ferimento e vulnerabilità sono il motivo ricorrente di questo canto. Il suo eroe è l'anima ferita, l'anima lesa. I suicidi-alberi chiedono pietà, ma se non attraverso l'offesa di un nuovo dolore non li sentirai. Essi non possono parlare più oltre il tempo in cui il sangue stilla dal loro ramo ferito. Dante e Virgilio, che ha suggerito a Dante l'esperimento feroce, si sentono colpevoli. L'anima del suicida (l'ombra, così la chiama nella lingua antica Dante), che si è installata in questo vaso di dolore, fa di ciascun suo interlocutore una persona coinvolta in una violenza su se stesso. Raffinatezza, controllo e nobiltà del discorso di Pier Della Vigna rafforzano questo effetto. Questo tormento ci impressiona forse più del fiume di sangue che ribolle nel canto precedente. La disgraziata fuga da una situazione intollerabile (“credendo col morir fuggir disdegno”, dice Pier Della Vigna, Inf.XIII, 71) da una infamia ingiusta, che una persona d'onore non può tollerare, dalla perdita della fiducia di colui, che un’uomo ama e che serve, non si può sopportare. Dante, sconvolto dalla pietà, non può porre a Piero una nuova domanda. Soltanto la sorte di Francesca lo aveva toccato in questa misura.
Pier Della Vigna, vittima della calunnia è il modello di quella fedeltà sovrana la quale era così cara a Dante, che «ingiusto fece se contra se giusto»(Inf.XII,72), ci appare come esempio universale del tragico destino umano in un mondo disumano, come spesso lo comprenderanno i pensatori e i filosofi più recenti. Ma il cristianesimo, sul caso senza via d’uscita pensa diversamente, e Dante su questo non discute. Si suppone che la libertà della volontà resta nell'uomo in ogni condizione e che in ogni condizione egli può scegliere la vita. A ciò ha posto un rifiuto «il grande pruno» Pier Della Vigna e l'altro suicida, che fu conterraneo di Dante, il fiorentino, ed ora è cespuglio, che davanti ai suoi occhi viene lacerato dagli scialacquatori, i quali, a loro volta, vengono lacerati dai cani da caccia.
Noi possiamo non rilevare che Dante esegue la preghiera di Pier Della Vigna (così come Enea compie il rito funebre per Polidoro): con il suo racconto egli riabilita la sua buona reputazione tra i vivi. Esegue anche la preghiera del cespuglio che un tempo fu giudice, che aveva condannato se stesso a morte e che aveva eseguito la sentenza (così, questa volta in termini giuridici viene descritto il suicidio). Dante (già nell'inizio del Canto successivo) raccoglie gli sparsi frammenti dei suoi rami.
Nei racconti dei due suicidi noi sentiamo i temi danteschi noti: lo sdegno contro i vizi della corte e dei costumi della natìa Firenze, sul quale non ha termine il potere del suo primo protettore pagano, il dio della guerra Marte.
Alla fin fine questo canto ci lascia con una sensazione d'una infelicità malata e incurabile. Ma chi l'ha detto che dall'Inferno noi dobbiamo estrarre soltanto la sensazione di un'ira giusta e di una giustizia che trionfa? Pier Della Vigna ci ricorda la solidarietà di sangue degli uomini - semplicemente perché essi sono stati uomini. Noi fummo uomini... “Uomini fummo”...
Che cosa significa “essere uomini”? In Dante, essere uomini significa essere uditi: “Nam in homine sentiri humanius credimus quam sentire” (Infatti nell'uomo la parte più umana crediamo sia di essere ascoltato piuttosto che ascoltare (De V.E.,I,5)). L'uomo è prima di tutto un messaggio, un segno. Ma a chi è diretto questo messaggio?
L'immagine della ferita come «per dolor finestra» e come l'organo sui generis del discorso che scorre insieme al sangue, appartiene a quelle cose che avendole una volta conosciute, ormai non si possono più dimenticare. Sul fatto che il dolore e la lingua umana nel mondo terreno in un certo senso siano identici, Dante l'aveva già pensato nel trattato «De Vulgari Eloquentia». La prima parola di Adamo, appena creato, Dante suppone sia stato un grido di estasi: El! - il quale, nello stesso tempo, era il nome di Dio. Dopo la cacciata dal Paradiso Terrestre, il bambino è nato con un grido di dolore: Uè!, - e questo è la sua prima parola per rivolgersi al mondo, per nominarlo (D.V.E., I, 4).
Nell'immagine degli alberi, che stillano sangue, sopravvive l'identicità biblica di sangue e anima.
Canto XIV. «…la folgore aguta…»
E dunque, il Canto successivo, così come il precedente, continua la narrazione senza pause. Essa inizia dal momento in cui i rami, strappati nel Canto precedente, sono stati raccolti, e il cespuglio danneggiato non parla di più. Noi non abbandoniamo lo spazio dei violenti. È questo il suo terzo girone: bestemmiatori, sodomiti, usurai. Una strana compagnia, non è vero? Per Dante si tratta di tre specie di violenza: contro Dio (bestemmiatori), contro natura (sodomiti) e contro l'arte (usurai). Cosa c’entra qui l’arte? L’arte, spiega Virgilio, nella lezione intoduttiva sulla natura della violenza ricordando Aristotele (Canto XI) è l’attivita umana con le sue regole più generali, che dove è possibile imitano la natura, la quale, a sua volta, imita il Creatore,
sì che vostr’arte a Dio quasi nipote (Inf.XI, 105).
Esigere in cambio più di quello che hai dato è proprio la violenza più malvagia contro l’arte.
Ad essi viene assegnato lo stesso tormento: falde di fuoco che scendono dal cielo:
come di neve in alpe sanza vento (Inf.XIV, 30).
Falde di fuoco accendono la sabbia rovente su cui giacciono supini i bestemmiatori, corrono, «escotendo da sé l'arsura fresca», i sodomiti e siedono gli usurai «tutti raccolti». Il castigo biblico di Sodoma e Gomorra. Il paesaggio indimenticabile, con informazioni supplementari dalla storia e geografia (Alessandro in India, Catone in Libia... ).
La parola passa al bestemmiatore pagano Capaneo, che dopo aver offeso Giove venne colpito perciò da un fulmine (ora la fonte di Dante non è Virgilio, ma il suo ammiratore e imitatore Stazio; il maestro e il suo allievo si incontreranno nel Purgatorio). La figura di Capaneo è uno dei due centri del Canto XIV. A questo lottatore contro la divinità non si può non riconoscere la grandezza.
Qual io fui vivo, tal son morto (Inf.XIV,51).
Anche ora, che è morto e tormentato, non si riconoscerà vinto: resta se stesso. Possiede qualcosa che non gli verrà tolto né dalla morte, né dal tormento: la sua dignità. Tre terzine che Capaneo rivolge a Giove tonante, eseguite con una tale forza lirica, da suscitare l'invidia nei poeti romantici dello Sturm und Drang e nei rivoluzionari di tutti i tempi.
Qual io fui vivo, tal son morto.
Se Giove stanchi ‘l suo fabbro di cui
crucciato prese la folgore aguta
onde l’ultimo dì percosso fui;
o s’elli stanchi li altri a muta a muta
in Mongibello alla focina negra
chiamando “Buon Vulcano, aiuta, aiuta!”
sì com’el fece alla pugna di Flegra,
a me saetti con tutta sua forza:
non ne potrebbe aver vendetta allegra.
Inf. XIV, 51-60.
Il senso della sua sfida: tutta la tua onnipotenza non è sufficiente per togliermi da me stesso. Io sono lo stesso anche da morto. Rallegrarti per la tua vittoria non potrai.
Il pio pagano Virgilio, arrabbiato per questo orgoglio, per la sua hybris, fa una diagnosi a Capaneo: la tua rabbia è il tuo castigo perfetto. Forse, egli parla per tutti e due? Tale doveva essere anche l'opinione di Dante, il quale era perfettamente al corrente dell'insegnamento cristiano sulla superbia e umiltà. Molti commentatori del nostro Canto suppongono, che sia così. Tuttavia la forza lirica è evidentemente dalla parte dei versi orgogliosi e rabbiosi, che Capaneo pronuncia, e non dalla parte del rimprovero didattico, con il quale risponde il pio Virgilio. Capaneo parla nella lingua lirica dello stesso Dante: vi sono le sue iperboli, le sue anafore, le sue ripetizioni crescenti, la sua maestria di disegnare con un solo tratto l'immagine (“Buon Vulcano, aiuta, aiuta!”), il suo ragionare per ipotesi (se… o se…), la sua abitudine per l'esattezza geografica. E proprio quel disprezzo sfarzoso, del quale parla lo stesso Dante sulla Fortuna, nel Canto succesivo, quando risponde alla profezia di Brunetto Latini sulle sciagure che lo attendono:
Tanto vogl’io che vi sia manifesto
pur che mia coscenza non mi garra,
che alla Fortuna, come vuol, son presto.
Non è nuova alli orecchi miei tal ara:
però girì Fortuna la sua rota
come le piace, e ’villan la sua marra.
Inf.XV,91-96.
Ma là dove nella voce del personaggio noi udiamo la voce del poeta stesso, dice Marina Cvetaeva, noi capiamo da che parte egli sta.
In che cosa consiste la giustezza lirica di Capaneo, e che cosa significa? Non c'è forse qui un elemento «prometeico» dello stesso Dante, il suo orgoglio, la sua ammirazione per la autoaffermazione dell'uomo al cospetto di Dio? Penso che la questione non stia del tutto così. Capaneo parla appunto così come l'uomo dovrebbe degnamente parlare al cospetto di una violenza onnipotente. La resa alla violenza, la sottomissione alla forza non è l'umiltà, ma la viltà – quella viltà, che Dante odiava.
Ma Dio è davvero questa forza cieca, violenta e iraconda? Noi possiamo acconsentire che il Giove di Virgilio sia una metafora dell'Onnipotente (l’epiteto stesso Omnipotens è passato nel latino cristiano dal Iuppiter Optimus Maximus, Giove tonante), possiamo pensare che la hybris pagana e la superbia cristiana siano in un certo senso vicine. Ma ecco che cosa è decisamente opposto: Capaneo non vede in Giove nient'altro che una forma superiore di violenza. La sua sfida è indirizzata verso questa violenza, e in un certo senso trionfa su di essa.
Ma per un cristiano la bestemmia non è una sfida alla Forza Onnipotente: è una offesa del Primo Amore. La pietà pagana non è a conoscenza di una tale immagine di Dio. Il silenzio di Dante dopo il rimprovero di Virgilio è molto significante.
Nel cerchio dei violenti signoreggia il Giove tonante di Capaneo, una violenza deificata, una tirannia assoluta. Nondimeno questa violenza non può uccidere l'anima, come involontariamente ci mostra la scena di Capaneo.
Si presuppore che Dante, la cui conoscenza della Bibbia era veramente straordinaria persino per il suo tempo, qualcosa di simile l'aveva notato nei libri del Vecchio Testamento, nella storia della lotta notturna di Abramo con l'Angelo e nella disputa tra Giobbe e i suoi amici devoti, qualcosa che era assolutamente ignoto alla pietà virgiliana. Certo ignota anche alla pieta del «buon parrocchiano», con il quale quattro secoli dopo disputerà Kierkegaard.
Il culmine secondo del Quattordicesimo Canto è il racconto di Virgilio sulla origine dei fiumi infernali. Dante prende di nuovo una cantonata, rivela una scarsa speditezza mentale, nel momento in cui non riconosce il rosso Flegetonte, che Virgilio aveva descritto: che lettore è! Questo fiume, che aveva occupato tutto il Dodicesimo Canto, nuovamente va loro incontro, nel deserto rovente del Quattordicesimo Canto. A questo proposito Virgilio dà una lezione dettagliata di idrografia oltremondana. Segue una storia incredibile sulla scultura meravigliosa di un Vecchio (Veglio) sui monti di Creta, nei luoghi dove un tempo si trovava il Regno di Saturno, il Secolo d'Oro pagano. Dante ha creato un vero nuovo mito, prendendo in prestito l'immagine biblica dal sogno di Nabucodonosor nel libro del Profeta Daniele (questa stessa immagine biblica racchiudeva già in se il mito pagano della degradazione dei Secoli dall'età dell'oro a quella del ferro, descritta nei Libro Primo delle “Metamorfosi” di Ovidio): «una statua enorme aveva la testa d’oro puro, il petto e le braccia d’argento, il ventro e le cosce di bronzo, le gambe di ferro e i piedi in parte di ferro e in parte di creta» (Dan. 2.32). Cosi è il Veglio di Dante. Nel racconto biblico il sogno si conclude con il fatto che su questo idolo si stacca una pietra dal monte, e lo distrugge (tradizionalmente ciò viene inteso come una profezia sul futuro regno del Messia, che sostituirà i regni terreni). In Dante, la statua resta sul posto, ma tutte le sue parti, ad eccezione di quelle d'oro, sono state danneggiate, il Vecchio piange. Le sue lacrime scorrono tra le fenditure. Quelle lacrime diventano i fiumi infernali. Durante il suo viaggio Dante ha già visto alcuni di essi, gli altri lo aspettano più avanti, nell'Inferno più profondo (Cocito) e in cima alla Montagna del Purgatorio (Letè). Sorprendente mito della Storia della Vecchia Umanità, della Storia che non è ancora arrivata a conclusione e che nutre, come sorgente, i fiumi del'Inferno. Ecco dove vengono inviati i dolori di tutti i secoli.
In cima alla Montagna del Purgatorio, dove scorre il Letè , noi vediamo una altra, biblica immagine del «Secolo d'Oro», l'Eden che è divenuto deserto dopo la cacciata di Adamo. Anche l'Eden è legato alla realtà terrena, ma in un modo diverso: l’Eden penetra nella storia umana attraverso i sogni profetici dei poeti, che rammentano agli uomini della prima innocenza della «radice umana». La promessa di Virgilio, per il momento ancora vaga, che Dante vedrà ancora il Lete, mette in relazione questi due quadri alternativi dell'origine della umanità.
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E dunque siamo passati insieme a Dante e Virgilio attraverso il dirupo montano della catastrofe, sulla riva del fiume di sangue che ribolle, nel bosco morto, che stilla sangue e gemiti, per il deserto di sabbia rovente, sul quale scende la neve di fiamme, e di nuovo abbiamo incontrato il Flegetonte. Con questo, il cerchio dei violenti non termina. Esso si svolgerà per i tre canti che seguono.
Vorrei mettere in rilievo l'aspetto comune di tutti questi paesaggi danteschi: sterilità, assenza di vita. Questo è il comune denominatore di ogni violenza. Il Tempo Moderno troppo spesso non è in grado di distinguere la forza vitale e la violenza, esso attraverso i suoi poeti e pensatori è pronto ad ammirare la violenza come espressione di potenza straordinaria, di spirito creativo, e di vitalità. Per Dante la vita e la violenza sono due cose assolutamente opposte. La violenza è la patria della morte, della morte in tutti i sensi. E così io termino il nostro discorso di oggi. |
| 1 Qui noi vediamo come questo mondo centralizzato si divide in pezzi. Cicerone e Agostino non riescono a trovare un posto nel suo spazio, così come nell'animo stesso di Petrarca si ingaggia una lotta senza fine tra il suo amore e la fede: Laura e la Madonna.
2 «the revelation of the nature of impenitent sin», P.H.Wicksted, «From Vita Nuova to Paradiso». Manchester University Press. Da:The Comedy of Dante Alighieri the Florentine. Cantica I. Hell. Translated by Dorothy L.Sayers. Penguin Books 1988. | |
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