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La santità non ha confini
L A N U O V A E U R O P A 3 • 2011
Molte, moltissime persone da tutti i confini della terra accoglieranno la notizia della canonizzazione di Giovanni Paolo II con le parole: «Final mente! Così doveva essere». Santo subito! – queste parole erano risuonate fin dal giorno della sua scomparsa. Nella cripta della basilica di San Pietro sulla sua tomba vedevo ogni volta una gran quantità di persone di diverse razze, inginocchiate, con le candele accese e assorte in preghiera. Tutto questo era prima della beatificazione ufficiale.

Anche quando Giovanni Paolo II era in vita, chi ha avuto modo di incontrarlo e vederlo da vicino avvertiva la sua santità – talvolta nonostante le proprie convinzioni e aspettative. Una volta mi ha raccontato una dottoressa svedese, invitata dal papa all’interno di un’équipe medica che aveva scoperto la cura per una malattia congenita fino a quel momento ritenuta incurabile: «In base alle mie convinzioni (non era credente, né tantomeno praticante), non dovrei dirlo, ma che ci posso fare! Quello che ho percepito non si può chiamare altrimenti che santità». La stessa cosa mi hanno ripetuto anche altri miei conoscenti occidentali «agnostici»: ad esempio un editore svizzero, che il papa aveva voluto invitare per esprimergli la sua gratitudine per aver pubblicato un libro sul l’Olo causto, e molti altri. Devo riconoscere che io stessa, come ortodossa, quando mi sono incontrata per la prima volta con un pontefice romano – per me una figura fiabesca e appartenente a un mondo completamente diverso – non mi aspettavo affatto questa impressione. Tanto più fortemente ne sono stata colpita.

Che cosa intendo, parlando di impressione di santità? Provo a dirlo per quanto mi riguarda: innanzitutto, incontrando questo sguardo, ci vediamo visti fin nel profondo, e questo non fa alcuna paura (come ci sarebbe da aspettarsi! Non a caso l’uomo si nasconde allo sguardo onniveggente di Dio, come fece un tempo Adamo); al contrario, questo sguardo ci colma sconfinatamente di gioia e di vigore: là, nel profondo di noi appare visibile qualcosa che è possibile amare, che è «cosa buona» (Gen 1), e che noi stessi non riuscivamo ad immaginarci. Questo sguardo vede in noi la creatura divina. In una delle poesie di Karol Wojtyła il Figlio dice al Padre:

Ho lasciato il Tuo sguardo,
carico d’infinito fulgore,
per lo sguardo degli uomini,
in cui luce il frumento.


Probabilmente, è questa la luce che vede in noi il santo. «Non avere paura! Non avere paura di niente!», dice questo sguardo. Lo sappiamo, proprio con questo appello – «Non abbiate paura!» – Giovanni Paolo II ha iniziato il suo lungo pontificato. Le parole di speranza e di coraggio sono probabilmente le parole fondamentali da lui rivolte al mondo, in cui vedeva la «civiltà della paura», la «civiltà della disperazione». In questo senso (e non nel senso dell’«incorporeità»), il santo è un angelo: è un messaggero. Viene a noi con il lieto annuncio. E ce lo comunica non tanto a parole, quanto attraverso se stesso, perché lui stesso è la «nostra lettera» al mondo, come dice san Paolo (2Cor 3,2). Accanto ai santi noi ci sentiamo al centro del mondo, ed è una percezione sorprendente: la percezione che la morte è vinta e niente perisce. E là dove la morte non esiste, i confini hanno poco senso. Anche l’unità è una delle parole centrali del papa: unità cristiana e unità del genere umano.

Il beato papa Giovanni Paolo II ora è in mezzo ai suoi amici: è sempre stato amico dei santi – amico di coloro che il Signore stesso ha chiamato Suoi amici. E noi possiamo essere certi che i santi non ci abbandonano.
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