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I nostri maestri. Per una storia della libertà in Russia
La storia del nostro paese in epoca sovietica è incredibilmente difficile da
penetrare. Vi sono alcuni modi consueti di raccontarla: come storia di un crimine collettivo, o come storia di una grande sofferenza:

E innocente si torceva la Rus’ nel dolore
(Anna Achmatova)

oppure come storia di un’interminabile guerra interna tra «regime» e popolazione1. Le cose si complicano per il fatto che molti, se non tutti coloro che hanno vissuto quest’epoca continuano a passare dall’una all’altra «storia». I secondini si trasformano in detenuti e viceversa, e generalmente parlando ogni membro di questa società svolge contemporaneamente entrambi i ruoli. Poiché l’oggetto delle persecuzioni resta sempre volutamente indeterminato (sia dal punto di vista sociale che razziale: proprio in questo consiste, in particolare, la differenza tra la nostra storia e quella della Germania), e il ruolo del singolo individuo risulta irrazionale, in questa guerra civile permanente (guerra ora «calda», ora «fredda», ora assestata, come ha detto un contemporaneo, sulla «media aritmetica tra una caserma e una serra»2, ad esempio alla fine degli anni ‘70). Statisticamente uno poteva ritrovarsi vittima, «nemico del popolo» senza alcun motivo oppure senza sapere il perché, e altrettanto inconsapevolmente poteva partecipare alle repressioni nei confronti degli altri (mostrando così di appartenere al «popolo»). Tutto questo suscita il desiderio naturale di non mettere il naso in questo groviglio impenetrabile a mente umana, e di dimenticarlo, punto e basta. Di non chiedere niente a nessuno, di non chiedere perdono a nessuno. «Arimortis, non vale!», come si dice nei giochi infantili. Nessuno ha colpa, siamo tutti vittime della storia.

Ma la persona espropriata di se stessa e dei propri atti (come doveva essere l’uomo «nuovo» dell’ideologia), non ha bisogno soltanto di un’autogiustificazione «personale». Gli serve anche un’altra cosa: che nella sua epoca non esistano persone assolutamente diverse da lui, o perlomeno, ha bisogno di poter dire che non ne ha mai incontrate. Erano tutti così.

Ecco, è proprio questa affermazione che voglio mettere in discussione. Oltre alle immagini del XX secolo sovietico che tutti ben conoscono e che a tutti risultano sgradevoli, c’è anche un’altra strada che conduce al nostro passato. Devo riconoscere che neppure io l’avrei trovata. Me l’ha suggerita il libro di un amico ormai scomparso, il teologo inglese Donald Nicholl, I trionfi dello Spirito in Russia3 (un’antologia di storie della resistenza cristiana, di vicende biografiche di martiri della nostra epoca). Qui sì che tutto appare assolutamente diverso! E cioè tale da suscitare non vergogna o dolore (come le storie menzionate sopra), ma gratitudine e ammirazione. Queste cose sono degne non di oblio, ma di perpetua memoria.

Sì, c’è una storia completamente diversa, invisibile, la storia della libertà nella Russia dell’epoca sovietica. A suo tempo era invisibile. E resta invisibile anche oggi. Adesso, guardando indietro, secondo il suggerimento
di Donald, al passato che io stessa ho vissuto, e a quello di cui ho letto o sentito raccontare dai testimoni, posso proseguire nella panoramica. Non solo i confessori della fede cristiana entrano a far parte di questa storia della libertà. Quando Sergej Averincev scriveva, parlando di Plutarco o di Aristotele, che si «sentiva in segreta e appassionata intesa con uomini di epoche diverse», o quando Anatolij Achutin ricordava che negli anni di scuola in risposta al: «Fanno tutti così!», lui pensava: «Ma Socrate non faceva così… E Pascal non faceva così…», noi sentiamo la voce di una comunanza diversa da quella della Chiesa, ma anch’essa contrapposta al collettivo comunista e ai suoi dirigenti: la comunanza generata da una cultura che pensa e che crea. Ad essa aderiva un’altra parte degli «invisibili», gli artefici della nostra invisibile storia della libertà. Si potrebbero definire confessori della dignità (o anche della nobiltà) dell’uomo: dell’uomo pensante, dell’uomo dotato, dell’uomo alla ricerca della bellezza e del significato, dell’uomo – per usare un’espressione di Pusˇkin – consapevole della propria dignità, cioè, per farla breve, dell’uomo di cultura, l’homo sapiens sapiens, l’homo humanus. Anche questa particolare «professione di fede», come dice la sorte di Mandel’sˇtam e di molti scienziati, artisti o semplicemente uomini di cultura, in alcune epoche costava la vita. E in altre costava comunque abbastanza cara.

Prima di tentare di ricordare le diverse tipologie di questi invisibili, che in maniera solitaria oppure in «segreta intesa» conservarono il volto umano, voglio fare un’altra considerazione di ordine generale. Sto parlando di «storia della libertà», ma la stessa parola «storia» ha qui un significato particolare, perché in questi sprazzi di libertà non c’era una continuità evidente, non c’era sviluppo e continuazione come avviene solitamente in tutte le storie. Lo sforzo liberatorio compiuto da una generazione non si trasmetteva all’altra. La gente della mia generazione non conosceva gli artisti, i compositori, gli studiosi degli anni ‘30 che erano stati passati sotto silenzio e banditi. Ero già adulta quando a Mosca viveva Anna Barkova, una poetessa forte e libera, ma ne ho sentito parlare solo negli anni ‘90 da slavisti inglesi. Anche noi, a nostra volta, non abbiamo potuto trasmettere la nostra esperienza ai più giovani. I ragazzi che erano «pionieri» negli anni ‘80 hanno dovuto aprirsi da soli un varco per liberarsi dall’indottrinamento, come fossero i primi. Qui indubbiamente fanno eccezione i credenti: negli ambienti ecclesiali questo «passaggio del testimone» è avvenuto.

Esiste anche un’altra eccezione, che costituisce il tema del mio intervento: i nostri maestri. Docenti di musica e di fonetica, di astronomia e paleografia… Si incontravano certe persone tra di loro! Qui il filo della continuità è estremamente sottile e selettivo. Eppure non si è mai spezzato del tutto. Dunque, parlavamo della liberazione interiore e delle sue fonti. In che modo ci si scioglieva dal malefico incantesimo, in che modo si arrivava a scorgere un pertugio nella cortina di ferro destinata a separare chiunque fosse nato in URSS, non solo dall’«estero», ma anche dalla storia, dalla scienza, dall’arte reale, e in ultima analisi dalla propria vita interiore?

Ho già citato all’inizio due zone di invisibile libertà: in primo luogo la professione di fede cristiana, e in secondo luogo la professione di fede nella cultura (negli anni ‘70 i due movimenti si avvicinarono fino a confluire nella figura di Averincev). Sia nell’una che nell’altra sfera, le fonti della liberazione potevano essere persone «diverse», che erano riuscite a sopravvivere. «Faccia attenzione – mi disse una volta durante gli anni di università Boris Uspenskij – lei appartiene all’ultima generazione che ha la possibilità di conoscere persone di prima della rivoluzione. È una cosa da ricordare».

Potevano essere opere letterarie, scultoree, musicali, insomma tutti i «classici» che erano ancora ammessi. Il regime non valutò adeguatamente la loro forza d’impatto. Leggendo nell’infanzia le ballate di Zˇ ukovskij
e suonando, come tutti quelli che studiavano pianoforte, Schubert e Chopin, io ero già bell’e vaccinata contro la bruttura dell’estetica sovietica, sebbene ancora non capissi nulla di ideologia e di economia.

Poteva essere un carisma personale, una vocazione personale. A chi seguiva la propria vocazione non si lasciava spazio sulla scala sociale. Oppure era destinato a fermarsi ai gradini più bassi, quasi invisibili, anonimi, a lavorare come correttore di bozze, tecnico di laboratorio, bibliotecario. Un correttore di bozze in epoca sovietica poteva essere incomparabilmente più colto di un redattore, un tecnico di laboratorio saperne di più del cattedratico e così via. Questa gerarchia a rovescio valeva dappertutto.

Ma l’azione liberatoria più intensa e diretta la compirono i maestri, per coloro che hanno avuto la fortuna di incontrarne. Io sono tra questi fortunati.

Voglio semplicemente leggervi un racconto che ho scritto su uno di questi maestri, su una di quelle persone «che non avrebbero dovuto esistere»: un mio professore universitario, Michail Viktorovicˇ Panov. Michail Viktorovicˇ non era un «invisibile» nel significato attribuito alla parola da Solzˇenicyn. Era un grande filologo. Lo hanno costretto all’invisibilità. Ma è sempre stato se stesso, anche quando il suo modo di vedere non si era ancora definitivamente discostato da quello ufficiale. E questo era sufficiente perché chiunque aveva l’occasione di incontrarlo, lo ricordasse come l’uomo che gli aveva aperto una finestra sulla libertà.

Il professor Panov

Michail Viktorovicˇ Panov. L’ultimo incontro Grazie a Dio ho fatto in tempo a fargli visita. Prima di quest’ultimo incontro, ci eravamo persi di vista per alcuni anni. Oppure ci eravamo visti casualmente, mentre andava o tornava dalla biblioteca. Prima di entrare nel portone ho chiesto ad alcune vecchiette se fosse quello il numero civico che stavo cercando.
– Ah, sta andando da Michail Viktorycˇ? Vada, vada, è da stamattina che la aspetta. Ci ha fatto comperare le caramelle – ho un’ospite di riguardo, sapete! – ha detto.

Tutte quelle scatole di caramelle, almeno tre, poi me le ha date da portare a casa. Aveva sempre dei dolci in casa. Non offriva mai nient’altro. Quando una volta eravamo stati a fargli visita insieme a Viktor Krivulin, di cui egli apprezzava molto la poesia, e questi aveva tirato fuori una bottiglia di vino rosso, Michail Viktorovicˇ aveva detto indispettito: «Non ho niente per bere questa roba». La bottiglia era ritornata nella borsa.

Anche la porta, come sempre, non era chiusa a chiave. I libri erano aumentati ancora. In questa montagna di libri si era scavato degli spazi vitali, quasi delle caverne: in una caverna, sotto dei libri e sopra altri libri, dormiva. L’altra caverna serviva per la tavola con i dolci. Del resto, anche dall’orlo di questo tavolo spuntavano altri libri, i più recenti. Tra le due caverne c’era un sentierino, che costeggiava pile di libri che arrivavano fin quasi al soffitto. Mi aspettava disteso con un libro in mano nella prima caverna, ma vestito di tutto punto in giacca, camicia di bucato e cravatta. Come sempre.

Ma la sua gentilezza mi sembrò ormai diversa dal solito, all’antica. Come se fosse ritornato alla sua lingua madre, la lingua della vecchia intelligencija moscovita. Una lingua in cui esistevano parole come «mirabile Olja». All’università parlava in maniera più vicina alle nostre abitudini. Non era mai stato un conservatore. E non lo diventò mai. Apprezzava il nuovo.

– Se fossi in grado di arrivare fino alla chiesa, accenderei una candela per chi ha inventato questo mirabile bianchetto! Che comodità! Non occorre più usare la gomma o fare cancellature con la penna.

Mi è sempre sembrato che le sue lettere fossero scritte con inchiostro multicolore. Alcune erano davvero così. Ma il motivo era un altro: erano le sue frasi ad avere colori diversi, così che colorarle sarebbe stata una tautologia. Così pure le sue parole erano multicolori. Mettiamo che stesse raccontando un aneddoto curioso. Ed ecco che all’improvviso, di botto: «Sì, che guaio, Olja, il giorno ormai è al declino!». Io ero già pronta a pensare che stesse parlando in senso lato, simbolico, ma stop: è il 5 luglio. Sono ormai due settimane che la durata della luce diurna sta scemando. Sì, una svolta malinconica. In una delle sue ultime poesie, aveva scritto che in autunno

In questa stagione di distacchi
È così facile morire.
Basta solo slitte, slitte
Forgiare in celere acciaio
Che ci portino con impeto
Da queste rive a quelle
Ove dolor non è, né la paura...


«Allora vive in campagna, adesso? – mi chiese, pronunciando con un’espressione di di sappunto sul volto la parola “campagna”.

– No, questo io non l’ho mai capito. Io sono un uomo di città».
Tra parentesi: come aveva già sottolineato Pusˇkin nella sua doppia epigrafe al secondo capitolo agreste dell’Onegin:

O rus! (Orazio). O Rus’!

anche ora l’idea che tutti anno della «vera Rus’» è legata quasi esclusivamente ai contadini e alla vita di campagna. Chissà perché non pensiamo all’altra cultura russa, urbana, a cui apparteneva con tutto il proprio essere Michail Viktorovicˇ.

Si rattristò. Ma dissipò ben presto questo triste pensiero sulla detestata campagna. Trovò una soluzione. Il volto gli si illuminò. «E lei si comperi un cavallo! Sa com’è bello! Io sono stato in cavalleria, e come mi obbedivano i cavalli, oh sì!». Sorrise, evidentemente entusiasmandosi al pensiero di quei cavalli obbedienti.

Era la terza allusione alla guerra che gli sentivo fare in tutto il tempo della nostra conoscenza. Michail Viktorovicˇ aveva trascorso tutta la guerra al fronte. Non si lasciava mai andare a parlarne (come del resto un altro ufficiale al fronte, Jurij Michajlovicˇ Lotman). La cosa destava sorpresa, se si pensa che eravamo cresciuti in un crescente culto del militarismo, che aveva raggiunto l’apogeo nell’epoca di Brezˇnev e non era mai sceso sotto quel livello, tra innumerevoli memorie di guerra che per noi si trasformavano in un incubo rituale, in una parte dell’ossessione ideologica. Probabilmente i veterani raccontavano la verità sulle proprie imprese, anzi di sicuro! – ma c’era un non so che di insopportabile in tutto questo… Perché erano riusciti ad essere coraggiosi, arditi solo là?…

Il suo primo ricordo di guerra riguardava il fatto che aveva assistito alla fucilazione dei disertori – ragazzi del Caucaso, che Stalin aveva chiamato sotto le armi praticamente da bambini e che, senza capire nulla, erano
fuggiti per nascondersi tra le montagne. Li avevano catturati e puniti in maniera esemplare, pubblicamente. «Io credevo che non avrei potuto più vivere dopo questo fatto…».

Il secondo ricordo l’aveva descritto in una poesia. In attesa di un attacco tedesco, mentre stava in trincea, si era chiesto perché mai si ritenesse che il verso libero non può esistere nella poesia russa. Certo, certo che è
possibile!

Anche quell’ultima volta, mi sembra, parlammo del verso libero. Era tutto assorto in se stesso e al tempo stesso attento ad ogni nuova piega che prendeva il discorso. Come sempre. Quello che non c’era stato «sempre», né del resto avrebbe potuto esserci, era la piccola icona sul tavolo. Un’immagine della Madonna... mi sembra di Kazan’. A suo tempo mi aveva detto: «Una studentessa mi ha chiesto se sono battezzato. Sì – rispondo io, – i miei genitori mi hanno battezzato, perché? – Allora, si può pregare per Lei!». E guardandomi con una profonda, profondissima tristezza e insieme con ironia, mi aveva chiesto: «Ma è questa la nostra fede? Con siste nel pregare solo per “i nostri”?». Ma anche a parte questa storia, le questioni di Chiesa non l’avevano mai attirato.

Non lo attirava nessun tipo di idealizzazione. Apprezzava la capacità di prescindere da idealizzazioni, generalizzazioni aprioristiche e convenzioni comuni, cioè da ogni tipo di filtro che cercasse di convertire l’esperienza diretta. La capacità di dimenticarsi di tutto ciò, per vedere e sentire invece quello che c’è: il primo suono, la prima luce. Sentire come si pronuncia, e non come si scrive. Era rimasto entusiasta quando gli avevo raccontato di come, da piccola, anziché «o», quando la vocale era accentata scrivevo «uo»4. «Lei sentiva la natura dittongale della nostra “o”! È una cosa possibile solo prima di ridursi a dipendere dalla scrittura, dall’ortografia!». L’acustica reale, l’articolazione reale, ecco ciò che amava. E la scrittura, solo quando rivela la sua natura ornamentale. Non è un caso che avesse lavorato a una riforma dell’ortografia russa che avvicinava la scrittura alla pronuncia (devo ammettere, sono contenta che alla fine non sia stata accettata: i nobili residui dell’etimologia hanno pure un valore!). E ci dava come compito di ascoltare per davvero: in quali casi la «i breve» suona più simile a una «e», e in quali a una «i»? Tutto ciò che non veniva idealizzato gli sembrava più ricco e interessante di tutte le idealizzazioni possibili, e il mondo ecclesiastico gli appariva per l’appunto come un ambito di immote stilizzazioni.

Notando che guardavo di sfuggita le icone inaspettate, mi raccontò la sua conversione. Stupefacente. Non avevo mai sentito niente del genere. Aveva letto su un giornale di un caso capitato su una strada: un cucciolo d’alce era rimasto intrappolato in una palude e la madre si era avventurata fin sulla carreggiata in cerca di aiuto, rivolgendosi come poteva ai passanti. Qualcuno aveva inteso l’animale, l’aveva seguito e in questo modo aveva salvato il giovane alce.

«E ho capito, Olja. È stata la Madonna (si è segnato). È tutto vero, esiste. Ci creda, ci creda!». Parlava con le lacrime agli occhi. Le ultime parole che ho sentito da lui già sulla porta: «Sarei contento di parlare con Lei
all’infinito, ma non oso trattenerla». Vedendolo per la prima volta all’università, quando teneva il corso generale di fonetica russa (la sua venuta era stata preceduta da voci: verrà un genio a tenerci il corso!), ho pensato che non avevo mai incontrato occhi tanto assorti. Vedeva qualcosa in più rispetto a quello che era visibile a noi tutti, un qualcosa che doveva indubbiamente essere buono, duraturo, infinitamente degno di attenzione. No, non era lo sguardo assente del visionario: era lo sguardo di un pensiero che non conosceva interruzioni. Uno sguardo così viene spesso raffigurato da Rembrandt. Allo stesso modo Zˇukovskij descrive il pensiero di Pusˇkin nella bara:

E di chieder mi struggevo: ma che vedi?

Con ogni probabilità non c’era niente da rispondere. Un duraturo pensiero non ha un «quid», delle figure o degli oggetti. Ma una persona immersa in questa visione che è nel contempo dialogo, si riconosce immediatamente come una persona giusta. «Ma non ti sembra che abbia tutt’intorno un’aureola? Non lo vedi il nimbo?», mi chiedeva una compagna di corso che già sapeva, a differenza di me, chi fosse Michail Panov (era stata lei a far sapere a tutti dell’arrivo del «genio»). Non voglio ricamarci sopra, non ho mai notato alcun effetto luminoso, ma una cosa era certa: entrava in aula dentro un proprio spazio, in una sorta di bozzolo, e gli altri accanto a lui apparivano d’un tratto come svestiti, svuotati della propria aura. In lui non c’era vacuità, ecco. Questa era la cosa più strana di tutte. Tutti si perdevano in futilità, e questo, appunto, li svuotava della propria aura, mentre lui no. Lui era in sé. E questo «in sé» non si fermava al rivestimento della pelle, si espandeva proprio a partire da lì. Da bambina e da adolescente mi sembrava che l’anima non fosse dentro di noi, nel profondo (il cuore è senza dubbio in profondità): l’anima riveste tutto il nostro corpo dall’esterno, come un secondo epitelio. Così che essere in sé, significa essere rivestito di quest’aura. Così mi sembrava.

Lui scherzava, inventava, faceva monellerie a lezione, addirittura si metteva a cantare, a volte, stornelli popolari, preavvisandoci che avrebbe stonato, e in effetti stonava! Ma voleva mostraci la genialità fonetica popolare, che si evidenziava in quest’ultimo genere di poesia orale.

ì Ì‡Ò 􀀀Âó͇ Íβó‚‡fl
ч Ë Î˛‰Ë ÌËó‚Ó
äÓ􀀀ÓÏ°ÒÎÓ ÌÓó‚‡ÎÓ
ç Ûó‡ÎËÎË Â‚Ó.5

Che gusto della lettera Cˇ ! In accoppiata alla V! E invece dalla K, che dopo «Âó ͇ ÍÎó ‚ ‡» manca in «ÌËó ‚ Ó», spunta
genialmente questo imprevedibile «ÍÓÓ -
ÏÒÎÓ». E che dire della rima? La rima, anima
della poesia europea moderna, anima della
Musa pusˇkiniana – agile, obbediente, inaspettata
come un passo di danza della
Istomina6, nella poesia popolare è inscindibilmente
legata alla comicità. Solo qui sembra
al suo posto. È troppo sonora per i generi
elevati del folklore, e nell’epos e nella ballata
tintinnerebbe come un sonaglio. Ma l’anima
dello stornello ingenuo e malizioso è
appunto la rima. La prima rima, «ÍÎó ‚ ‡
– ÌÓó ‚ ‡ÎÓ», si sente subito quanto sia graziosa.
E la seconda? Dov’è? «ç Ëó ‚ Ó– ‚ Ó»?
Ma no! Con la parola «ÌËó ‚ Ó» fa rima tutto
l’ultimo verso: «ÌËó ‚ Ó– ç  Ûó ‡ÎËÎË
‚ Ó», che è come un ampliamento, un dilatarsi
della prima parola. La rima stretta, ecco
il culmine del virtuosismo nel comporre
rime!

Le sue analisi della forma poetica erano sempre brillanti, ma io me ne resi conto solo in seguito, al seminario di poetica linguistica. E poi, alle lezioni sul verso russo. Si cominciava con la fonetica generale, con la scuola di Mosca, con l’idea di fonema, indigesta per un ascoltatore intellettualmente non esercitato. Certo, tutti noi eravamo per la scuola fonetica linguistica di
Mosca, contro quella di Leningrado, puramente empirica. Ma qui ci aspettava il salto dal suono fisico a quello speculativo.

La fonetica ci affascinava non solo perché riguardava la cosa che passava più inosservata, disprezzata da un atteggiamento verso la lingua prosaico e utilitario, e cioè la sua carne: essa ci svelava anche la favolosa ricchezza e la sottigliezza di sfumature in questa materia acustica e articolatoria. Ma (non è un caso che dalla fonetica si siano sviluppate e ultime, «rigorose» teorie della linguistica), essa riguardava una carne totalmente composta di rapporti ordinati in modo complesso. Di fasci di opposizioni. C’era di che entusiasmarsi. Era una sorta di riabilitazione di una sostanza che era fino in fondo intelligente, formalizzata, o per meglio dire provvista di forma, e non era affatto la «materia» amorfa e sordomuta, il cui carattere primario ci veniva ribadito fino alla noia alle lezioni obbligatorie di filosofia materialista. In questo caso, come poi in molti altri, ho capito che ciò che prende il nome di «visione marxista della realtà» corrisponde nella sostanza – tradotta in termini «scientifici» – alla visione del mondo che può avere un pesante e pigro qualunquista. La caratteristica principale di questo personaggio è che non vede il bene, non ha niente a che vedere con esso. «Sullo spirito grava fin dall’inizio una maledizione: essere rivestito della carne della lingua», dice Marx. Anche se è così, perché mai dovrebbe essere una maledizione? Ma Michail Viktorovicˇ non polemizzava affatto con il marxismo. Parlava del fonema. Ed era poesia, come in Dante: poesia dell’intelletto che tripudia. Noi vedevamo questi «atomi di suoni» (Chlebnikov: «sorge del suono l’atomo»), dotati di raggi di diversi attributi, di intersezioni e opposizioni, di leggi di straordinaria bellezza, e insieme dotati di libertà.

Michail Viktorovicˇ amava i formalisti, mentre riteneva che la scuola strutturalista, allora in ascesa, fosse una sua cattiva prosecuzione. Strutture e livelli gli sembravano troppo rigidi e opachi, gli mancavano il paradosso, il gioco. Jurij Lotman nelle ultime opere pensava al principio extrastrutturale, chiamandolo «esplosione»: per Panov la costruzione viva, la forma (si trattasse di lingua, di versi, di tradizione) era fatta appunto di esplosioni. Non una «norma» con dei «mutamenti», ma un vivo ordine di salti, esplosioni, una vicinanza di lontananze. In quell’ultimo nostro incontro mi propose di scrivere, per l’Enciclopedia del giovane filologo da lui ideata, un articolo su Majakovskij! Proprio perché sapeva quanto fosse lontano da me. In questi casi scocca la scintilla, diceva. Mentre di Mandel’sˇtam, beh, è chiaro che cosa scriverebbe di Mandel’sˇtam. No, Majakovskij, me lo prometta… io promisi evasivamente di pensarci. Non ci pensai molto. Mi spiace, troppo lontano perché scocchi la scintilla.

Insoddisfatto sia del «metro» (una sorta di reiterata griglia organizzativa), sia del «ritmo» (il disegno delle deviazioni da questa griglia), aveva inventato un terzo strumento che aveva chiamato «gnotro» (unione di «gnosi» e «metro»): una sorta di principio formalizzatore generale, che agisce sia nella ritmica in quanto tale, sia nell’ambito delle immagini poetiche e nella composizione. Cercava questi «gnotri» nella poesia russa dal XVIII secolo fino ai contemporanei (ad esempio, descriveva lo «gnotro» di Baratynskij come un movimento pietrificato, un’improvvisa statua del flusso), compresi i poeti che non venivano pubblicati in quel periodo. Chi altri si sarebbe azzardato in quegli anni a tenere lezioni su autori che il potere ordinava di considerare inesistenti, come Krivulin o Elena Sˇvarc? La domanda è retorica.

Michail Viktorovicˇ è stato il primo «adulto» a cui mi fossi azzardata a mostrare i miei versi. Al secondo anno, nel 1969. Gli consegnai un quaderno dattiloscritto, e solo dopo mi spaventai di quello che avevo fatto. Appena lo vedevo da lontano, cercavo di non capitargli sotto gli occhi. Ma la vita tuttavia fece sì che ad un certo punto ci incontrassimo in ascensore. E lui, prevenendo la mia fuga, si avvicinò, mi tese la mano e disse: «Complimenti. Questo libretto è un avvenimento nella poesia russa». Sarebbe stato il mio salvacondotto per molti anni.

Critici e poeti sovietici, e anche i filologi adesso potevano dirmi quello che volevano – e lo dicevano, non hanno smesso neanche adesso – ma io ormai tra me e me potevo ricordare: Panov invece…

Cercò di aiutarmi anche organizzando una lettura di mie poesie alla facoltà, usando come copertura una sua lezione su Ol’ga Sedakova, in modo tale che la lettura dei miei versi potesse essere presentata come un’illustrazione delle sue tesi. Leggere semplicemente le mie poesie a quell’epoca sarebbe stato impensabile: perfino sul giornale murale era vietato affiggere versi miei. L’iniziativa era stata organizzata pensando ai miei genitori, perché vedessero che un professore universitario trovava qualcosa di buono in questa mia «stramberia». L’aula era piena, e quando entrò mio padre in uniforme militare il pubblico si spaventò: «Ci siamo!». È difficile oggi spiegare che passo fosse stato da parte di Michail Viktorovicˇ, e come passi del genere non venissero perdonati. Ma per quella volta ce la cavammo senza guai. Ma anche senza risultati positivi: mio padre continuò a pensare che avrei dovuto fare la ricercatrice e lavorare come tutti. Quando mi ricoverarono in ospedale psichiatrico, Michail Viktorovicˇ volle parlare a mio padre, per convincerlo che gli artisti vanno trattati con cura e attenzione senza meravigliarsi delle loro stranezze. Poi mi raccontò che era rimasto sorpreso, perché era convinto di vedere un duro militare e invece si era trovato davanti un uomo annientato dal dolore, che non riusciva a raccapezzarsi di quanto stava succedendo. Sua figlia, in cui riponeva grandi speranze, si era trasformata in un essere incapace di intendere e di volere, e i medici dicevano che non c’erano speranze. Non so come l’abbia consolato Michail Viktorovicˇ. Nel frattempo fece pubblicare una mia relazione (al second’anno!) sulla «Figura del fonema nel Discorso sulla Elle di Velimir Chlebnikov» nell’annuario accademico dell’Istituto di lingua russa, anche questa una cosa impensabile in quegli anni. Ben presto cadde a sua volta in grave proscrizione e non poté più aiutarmi in nessun modo… Non so come Michail Viktorovicˇ definisse il mio «gnotro» nelle ultime lezioni, ma in una lettera mi scrisse: «La sua vista è così conformata: Lei prende l’oggetto più vicino e lo spinge lontano». Non so se sia vero, ma quest’immagine di uno sguardo che spinge lontano è bellissima, e mi piacerebbe un poeta che facesse così. E anche una persona che facesse così, mi piacerebbe. Purtroppo, però, uomini e poeti fanno più spesso il contrario: agguantano qualcosa di lontano, a caso, e lo trascinano nella vicinanza più babelica. Oh, com’è odiosa questa vicinanza! Con tutte le spiegazioni, cause e finalità del caso. E questa lontananza, inspiegabile, senza finalità né cause, si dibatte e soffoca sotto i nostri occhi, come un pesce sulla sabbia. Non può respirare quest’aria. Parola d’onore, gli uomini sono terribili, talvolta, là dove non lo sospettano neanche.

Forse è proprio quello che fa Rilke, spingere le cose in lontananza. Vuole mostrare le «cose di quaggiù» all’Angelo, come si dice nell’Elegia Duinese («Loda all’Angelo il mondo, non quello indicibile, con lui / non puoi sfoggiare splendore di sentimento; nell’Universo / dove egli sente più sensibilmente, tu sei novizio. E allora / mostragli / quello che è semplice, quel che, plasmato di padre in / figlio / vive, cosa nostra, alla mano e sotto gli occhi nostri»7). Questo appunto significa: spingile in una lontananza inebriante, fin sotto gli occhi dell’Angelo.

Se la mia vista (ovvero la mia mente) avesse davvero questa forza di spingere lontano le cose vicine o di raggiungere quanti sono passati loro stessi in quella lontananza, invece di scrivere questi appunti io manderei a Michail Viktorovicˇ un sacco di cose: questa collina autunnale che si vede dalla finestra, ricorda com’era bella? Oppure il gatto accovacciato sulla stufa che fa le fusa, ricorda che Baudelaire chiamava violoncello questo ronfare? E ancora i piccoli astri lilla della siepe, li ho piantati io: sono per Lei, mio maestro, mio lettore, mio difensore. Possano arrivarle fin là

Ove dolor non è, né la paura...

come diceva Lei. Dove, spero, tutti osano richiamare l’attenzione dell’altro, come la Sua mirabile alce madre.

Trad. Giovanna Parravicini
L A N U O V A E U R O P A 1 • 2 0 0 8

1 Non parlerò qui del tentativo di scrivere una «storia unitaria», che adesso si sta intraprendendo a livello ufficiale, e in cui sostanzialmente non si lascia spazio né alla sofferenza né al crimine.

2 P. Georgij Cˇistjakov, Na putjach k Bogu Zˇivomu (In cammino verso il Dio vivente), Mosca 1999, p. 132.

3 D. Nicholl, The Triumphs of the Spirit in Russia, Londra 1997.

4 «Muozˇno?», «Uocˇin’!» (Si può?, Molto!). Così infatti si legge, in russo, la «o» accentata, mentre al contrario, quando non lo è, si assimila ad una «a». ndt

5 Si potrebbe tradurre all’incirca così: «Il nostro è un limpido ruscello / e gente brava c’è nel vicinato: / vi è rimasto tutta notte il secchiello, / nessuno se l’è imboscato». ndt

6 Evdokija Il’inicˇna Istomina (1799-1848), danzatrice di Pietroburgo, cantata da Pusˇkin nell’Onegin. ndt

7 R.M. Rilke, Elegie duinesi, Torino 1978, p. 57, elegia nona.
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