A proposito della poesia: fine, inizio e prosecuzione | II poeta porta la parola da lontano.
La parola porta il poeta lontano1.
| Marina Cvetaeva | Della poesia – e in particolare del dramma della poesia nella società contemporanea (molti direbbero: la fine della poesia nella nostra cultura, la sua morte, il tempo post-poetico dei nostri orologi) – si può iniziare a parlare da un punto a piacere. E già l'arbitrarietà di questo punto di partenza è una delle prime lezioni della poesia: la trasfigurazione dello spazio. Da realtà cosificata, da deposito inerte riempito di cose (tra le quali si presuppongono distanze più o meno grandi, superabili o insormontabili), lo spazio toccato dalla poesia si trasforma in qualcosa di diverso. Cessa di essere una cosa, allo stesso modo in cui le corde toccate dalle dita, dal plettro o dall'arco non sono più oggetti, e di loro non resta se non la vibrazione che genera il suono. Così nella poesia (e qui intendo la poesia astraendo da quella che è propriamente la versificazione), ciò che è vicino appare più remoto di una qualche galassia, e ciò che è lontano risuona non tanto vicino, ma "dal di dentro", e ogni cosa può così trovare corrispondenza nell'altra, senza tener conto del proprio "luogo" prosaico, della propria collocazione lessicale, materiale, logica, storica.
Non solo, ma entrambe queste "cose", sia la vicinanza sia la lontananza – allo stesso modo, del resto, di molte altre contrapposizioni "prosaiche"2: freddo e caldo, luce e tenebra, e potreste aggiungere quel che volete, ma dirigendovi il raggio della poesia – hanno qui in generale un unico significato, significano "qualcosa di eccezionalmente bello", "qualcosa di estremamente significative)": qualcosa che immette nel centro.
Lo spazio della poesia ha una sola coordinata reale: la correlatività al centro, al cuore. In russo "cuore" (serdce) e "centro, metà" (seredina) hanno la stessa radice, e questo tra l'altro ci mette in guardia dall'intendere cuore e cordialita, "cio che è al cuore" (serdečnost') in senso eccessivamente sentimentale. Ciò che è del cuore, al cuore, è semplicemente ciò che è centrale: il centro della vita, del suo significato non meno che delle sue emozioni. Gli antichi poeti (come Dante nella Vita nova) conoscevano bene il topos del centro, del cuore, della forma sferica quale qualità necessaria dello spazio vivo per eccellenza3.
Se si tiene conto di questo, allora quell'estraniamento dalla poesia di cui così spesso parlano i poeti contemporanei (ma che tanto più spesso e direttamente rivelano le stesse opere poetiche) è qualcosa di più ampio che un mero impoverimento emotivo della nostra cultura postmoderna, postfreudiana (quale altro "post" dovremmo nominare?). Si tratta del disabituarsi dalla forma poetica dello spazio, del non sapere né volere più esperire la centratura del mondo (sia del cosiddetto "mondo interiore", sia del mondo in generale), della volontà – consapevole o inconscia – di esistere non in vista del centro.
In termini generali, la fuga dal centro e dalla centratura non è del tutto priva di fondamento, e non è nemmeno difficile indovinarne il motivo. La realtà di un centro vivo, imprevedibile nel suo darsi e ritrarsi, come anche nelle conseguenze della sua pulsante presenza (ed è proprio di questo centro, non dello stabile centro pre-copernicano dell'universo, che parla la poesia: penso a qualcosa di vicino a quello che Heidegger chiama Lichtung), rappresenta una sorta di minaccia alla nostra esistenza. In ogni caso, una minaccia a qualcosa in noi, e a qualcosa che ci è evidentemente molto caro. Forse questo qualcosa e la sicurezza, la garanzia della "medesima" continuazione, in senso psicologico: la famigerata self-esteem. Di conseguenza sembra del tutto ragionevole rinunciare a questa rischiosa correlazione al centro, pagando in qualche modo il prezzo della nuova sicurezza: con la poesia, con la tragedia... Ma qui mi permetto di supporre che l'istinto di conservazione commetta un errore fatale. Scegliendo un mondo abbandonato dal senso e dal centro, noi non conserviamo noi stessi e nemmeno l'attuale status quo, ma solo la possibilità di scivolare senza ostacoli sempre più in basso, in un'esistenza sempre più superficiale, frammentaria e senza cuore (nel senso indicate).
I colori e le sfumature di questa condizione, di triste ospite sulla terra oscura4, sono quelli che si trovano per lo più espressi nell'arte che riconosciamo a prima vista come "contemporanea": una condizione di infelicità abituale, cronica. E il suo correlato: la disgregazione della forma (che, mi pare, solo per inerzia si può spiegare con il non conformismo, con la lotta contro la "bellezza" o "la comodità della percezione").
Ma se effettivamente è contemporanea solo un'arte simile, allora significa che siamo testimoni della fine di una certa grande epoca creativa, troppo grande per figurarci che cosa significhi vivere al di fuori di essa, dopo di essa. L'epoca – per esprimerci in termini didattici – della creazione individuale. Si potrebbe paragonare questa fine alia fine del tempo folclorico, al quale questa epoca ha fatto seguito senza averlo in profondità abbandonato: almeno nella misura in cui l'arte è rimasta arte di iniziazione al mondo e al suo cuore; nella misura in cui la voce dell'autore solista raggiunge il coro interiore, la grata corresponsione dell'ascoltatore o del lettore cui questa o quella combinazione di parole hanno dischiuso uno squarcio (Lichtung) nella sua propria lontananza. E al tramonto dell'epoca della creazione individuale, le parole di un autore ci danno uno sguardo su quella stessa lontananza – in quella lontananza centrale, "vicina" al cuore – che davano le antiche formule di scongiuro o l'oracolo. Ci danno, oppure ormai solo ci davano?
Ho iniziato parlando del significato non sentimentale del cuore. E concludo con un esempio di versi in cui questo significato si avvicina molto a quello sentimentale, e che hanno rappresentato per me un incontro con quello che chiamo "poesia". Si tratta questa volta di una poesia di Robert Burns, una celebre poesia, diventata l'inno scozzese, la cui melodia è stata ripresa da Beethoven, e nota in Russia nella versione di Maršak ("Dobbiamo forse dimenticare un vecchio amore?"). Ho letto con vero entusiasmo il testo originale, così lontano dal carattere schietto e quotidiano – prosaico – della versione ritmica russa: "Should auld acquaintance be forgot?". Forse proprio a motivo di questa poesia la mia riflessione si è orientata sulla sostanziale unità della poesia anonima popolare e della poesia d'autore. Burns, propriamente, non ha composto, ma soltanto completato una vecchissima canzone popolare, Auld Lang Syne, ed essa è ritornata nell'oceano del patrimonio comune. È il giuramento di non dimenticare ciò che un tempo è stato, un canto conviviale in onore di un'antica amicizia, di ciò che il destino aveva unito in anni lontani, e in anni lontani diviso:
But seas between us braid hae roar'd
Sin' auld lang syne.5
Un canto in onore di ciò che essendo passato non è oltre-passabile (la nostra lingua purtroppo non dispone di un participio future o qualcosa tipo il gerundivo per rendere l'idea: ciò che non deve passare, o insieme al quale anche noi passiamo); in onore di quello che una volta e per sempre ha avuto inizio.
Dopo aver completato le strofe anonime, Burns scrisse in una lettera a un amico: "Benedetto chi ha composto queste parole!". È una vera e propria partitura finale per coro, che risuona nella nostra mente ogni volta che la poesia ci fa ricordare un qualche felice mistero dell'uomo, la nobiltà della sua obbedienza e della sua libertà, il suo essere a conoscenza della fine e dell'infinito, e che questa conoscenza sia possibile condividerla con altri: con tutti. Almeno finché risuona il canto. | Trad. Adalberto Mainardi |
| 1 "Poet izdaleka zavodit rec'. / Poeta daleko zavodit rec'".
2 Così mi spiego con la prosaicità ormai generalmente diffusa quel sentimento di disagio e insoddisfazione che spesso mi suscitano gli allestimenti contemporanei del teatro di Shakespeare: il regista e gli attori ricercano un'interpretazione di "prosa", psicologica, di quelle situazioni, dei "personaggi" e dei loro discorsi, le cui motivazioni sono nella natura poetica dello spazio shakespeariano. Un approccio prosaico onesto fino in fondo dovrebbe rigettare del tutto Shakespeare come un'evidente assurdità, come fece Lev Tolstoj.
3 "E ne l'una de le mani mi parea che questi [Amor] tenesse una cosa la quale ardesse tutta, e pareami che mi dicesse queste parole: Vide cor tuum. E quando elli era stato alquanto, pareami che risvegliasse questa che dormia; e tanto si sforzava per suo ingegno, che le facea mangiar questa cosa che in mano li ardea, la quale ella mangiava dubitosamente" (Vita nova III). Nel successivo momento cruciale della metamorfosi dantesca il medesimo "Segnore della nobiltade" spiega a Dante il motivo del proprio pianto: "Ego tanquam centrum circuli, cui simili modo se habent circumferentie partes; tu autem non sic" (Vita nova XII).
4 "Bist du nu rein trüber Gast / Auf der dunklen Erde" (Goethe, Selige Sehnsucht).
5 "Ma i grandi mari ci hanno separate. / da giorni immemorabili". | |
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