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La lingua slava ecclesiastica nella cultura russa
Aproposito della traduzione inglese della liturgia ortodossa, padre Aleksandr Sˇmeman osserva che ne risulta una liturgia «non pienamente ortodossa, perché ciò che comunicava a questi testi un’autentica forza ed espletava la loro funzione liturgica – e cioè la bellezza – in una traduzione letterale semplicemente scompare»1. Per istituire un’autentica unione con la Tradizione, scrive in seguito, si esige non semplicemente la traduzione del senso, ma la ricostituzione di questa forza e bellezza nel contesto della lingua inglese, cioè una riscrittura molto libera, che è poi quanto egli propone. Non analizzeremo qui la sua traduzione (e in generale i problemi della traduzione). Qui per noi è importante il legame fra ortodossia, bellezza e forza, che padre Aleksandr riteneva assolutamente inscindibile. Il significato, il «contenuto» degli inni in quanto tale non possiede questa forza. Io penso che molti avversari delle traduzioni in russo moderno, parlando della «non ortodossia» dei testi tradotti, pur non possedendo le capacità analitiche di Sˇmeman e adducendo argomenti falsi (come la «sacralità» della lingua slava in quanto tale), in realtà partono dal medesimo senso della bruttezza di questi testi. Temo che qui non otterremo la bellezza scegliendo la strada di una traduzione fedele, perché la bellezza del testo russo e del testo slavo è diversa. Probabilmente non meno che per la riscrittura in inglese, anche per quella in russo si renderanno necessarie modifiche del testo assai più sostanziali di quelle che possono permettersi i traduttori. Si rende necessaria una rimozione molto più radicale delle costruzioni greche, estranee alla lingua russa mentre sono bellissime in quella slava (ad esempio, le costruzioni passive: «Sei degno... di essere cantato dalle voci dei santi»). Perché nella lingua slava le percepiamo così belle, cercherò di spiegarlo in seguito.

Si è parlato molto del significato della bellezza e della sua forza nella tradizione ortodossa russa. Una delle componenti di questa bellezza indispensabile per la «fede russa» è la lingua slava ecclesiastica. Essa ci ha introdotto a una particolare bellezza: a una parola «quasi comprensibile», a una parola che è a un tempo «familiare» ed «estranea», a una parola suggestiva, che suggerisce più che comunicare. Questo tesoro poetico della cultura russa è anche un tesoro in cui è insito un grande pericolo, perché una bellezza assolutamente senza significato oppure intesa in un senso erroneo rispetto a quello che vi è racchiuso (ed è un caso frequente nella comprensione dello slavo ecclesiastico), è anch’essa poco «ortodossa».

Lo slavo ecclesiastico

La lingua slava ecclesiastica come nuova lingua della liturgia nacque nel vivo di una polemica, e non di rado anche successivamente intorno ad essa si riaccesero dispute, che tra l’altro ponevano in questione la positività di quest’iniziativa all’origine (cfr. la posizione di Georgij Fedotov: a parer suo, il suo sorgere portò all’isolamento dei popoli slavi all’interno del mondo cristiano). La storia della ratifica ottenuta dai testi cirillometodiani a Roma (un fatto senza precedenti, e rimasto sino alla Riforma protestante l’unico precedente: l’introduzione di un nuovo linguaggio popolare nell’uso liturgico!) è stata studiata dagli slavisti italiani Riccardo Picchio e Bruno Meriggi.

La lingua slava ecclesiastica appartiene non solo alla storia della Chiesa ma a tutta la storia della cultura russa. Molti elementi della nostra cultura e mentalità nazionale sono collegabili alla forte presenza millenaria di questa seconda lingua, «quasi familiare», «quasi comprensibile», una «lingua sacra» il cui uso era limitato esclusivamente alla liturgia, alla preghiera, alle letture spirituali. Ogni citazione dallo slavo ecclesiastico, sia pur brevissima ci introduce immediatamente nell’atmosfera del tempio, con i suoi colori, aromi, ritmi: i solenni e lenti ritmi dell’azione liturgica, la sua atmosfera luminosa; queste parole e forme hanno acquisito una sorta di particolare materialità, sono assimilabili ai vasi sacri, agli oggetti sottratti all’uso quotidiano, feriale e perciò stesso recepiti come tesori sacri (come ad esempio il rivestimento metallico dell’icona, che se viene utilizzato liberamente da un artista contemporaneo sembra una provocazione scandalosa, come abbiamo potuto constatare recentemente).

In confronto allo slavo ecclesiastico, in contrasto con esso il russo viene percepito come una lingua profana, non semplicemente neutrale ma «impura» (in alcune parlate popolari si sono conservate tracce di questo significato peggiorativo di «russo»: nell’area di Vladimir «russificarsi» vuol dire lasciarsi andare, non curarsi più di sé), inammissibile per esprimere un contenuto religioso. Questa differenza di status si è mitigata dopo la nascita della lingua russa letteraria (che comprendeva degli slavismi nel suo lessico più aulico), ma non è mai scomparsa del tutto.

In generale, la lingua slava ecclesiastica non appartiene solo alla cultura russa, ma a tutta la koinè culturale che siamo soliti chiamare
Slavia Orthodoxa (il mondo slavo ortodosso, ovvero cirillico); appartiene cioè agli slavi orientali e meridionali (dopo aver abbandonato la sua culla slavo-occidentale, morava). In ognuna di queste tradizioni lo slavo ecclesiastico era la seconda lingua (cioè quella che si apprende non organicamente, come la lingua madre, ma attraverso lo studio), una lingua scritta, sacrale, una sorta di «latino slavo».

Come il latino, era idealmente una lingua sovranazionale, cosa che oggi si dimentica (traducendo dallo slavo ecclesiastico come dalla lingua straniera «russa», nella propria lingua, ad esempio, ucraina, oppure insistendo sul fatto che era la lingua bulgara antica).

Ma bisogna subito notare la sua differenza dal latino. Il latino era la lingua di un’intera civiltà. Il latino era usato nella sfera commerciale, nella letteratura profana, nella vita quotidiana delle classi colte, era una lingua sia orale che scritta insomma, operava in tutte le sfere proprie di una lingua letteraria. Per quanto riguarda lo slavo ecclesiastico, il suo uso fin dall’inizio fu rigorosamente limitato alla liturgia. Non si è mai parlato in slavo ecclesiastico! Non si poteva studiarlo come si faceva con il latino: facendo comporre all’allievo frasi semplicissime, oppure facendogli tradurre frasi dalla lingua madre. Queste nuove frasi non dovevano esistere! Sarebbero infatti appartenute a un genere che lo slavo ecclesiastico escludeva. Gli esercizi qui consistevano soltanto nel comporre nuovi tropari, kontakion, acathistos e così via, secondo modelli già fissati. Ma è molto poco probabile che questo succedesse. I testi in slavo ecclesiastico disponibili avevano un carattere monastico: erano stati composti da monaci, e molti di questi testi addirittura da santi. Alla lingua si comunicavano quindi le proprietà di questi anonimi o noti autori dei testi. Una lingua non semplicemente legata al tempio, ma all’esperienza monastica.

Una lingua «altra»

Questa seconda lingua, il «latino slavo» (con tutte le precisazioni fatte e molte altre ancora) era in ciascuno dei paesi slavi molto affine alla parlata, vernacula, lingua popolare. Talmente affine, che faceva ai bulgari, ai russi, ai serbi l’impressione di essere comprensibile, di non richiedere uno studio speciale. La gente si spiegava l’indeterminatezza del significato dei testi slavi ecclesiastici con la «sacra oscurità», necessaria a un testo liturgico.

Tuttavia quest’impressione era e resta falsa, perché per sua natura lo slavo ecclesiastico è un’altra lingua. Sottolineiamo: un’altra lingua Lnon solo rispetto al russo contemporaneo, ma in misura non minore alle parlate russe antiche. Tuttavia la sua «alterità» era unica: non tanto grammaticale o lessicale, quanto semantica, legata al significato. Sappiamo che lo slavo ecclesiastico zˇivot non è ciò che significa in russo moderno, e cioè «ventre», bensì «vita». Ma neppure nelle parlate russe antiche zˇivot significava «vita», bensì «masserizie, beni». Lo slavo ecclesiastico era, come ha detto bene lo storico della lingua russa Aleksandr Isacˇenko, sostanzialmente il greco... sì, una strana metempsicosi della lingua greca nella carne di morfemi slavi. Effettivamente le radici, i morfemi, la grammatica erano slavi, ma i significati delle parole erano per molti aspetti greci (ricordiamo che inizialmente tutti i testi liturgici erano traduzioni dal greco). A partire dalla propria competenza linguistica era impossibile comprendere questi significati e le loro combinazioni. In relazione a ciò si capiscono anche le discussioni sorte al momento dell’approvazione della liturgia in lingua slava. Non era pericoloso introdurre questa nuova lingua? Uno degli argomenti degli avversari di tale introduzione era appunto il fatto che sarebbe stata incomprensibile o erroneamente compresa. Gli avversari della liturgia in lingua slava si rifacevano alle parole di san Paolo sul parlare in lingue: «Chi parla con il dono delle lingue, preghi di poterle interpretare» (1 Cor 14,13). La nuova lingua sarebbe stata incomprensibile proprio perché era troppo affine alla parlata russa e aveva nel contempo un altro significato.

Ho già detto che sulla lingua slava ecclesiastica esistono numerose discussioni e polemiche. Una di esse è la disputa irrisolta di Bulgaria e Macedonia sulla lingua-base dello slavo ecclesiastico, la parlata bulgara o quella macedone. A me sembra che non sia così sostanziale. È evidente che come base venne preso un dialetto slavo meridionale, noto ai Fratelli di Tessalonica. Nel linguaggio dei codici più antichi si osservano elementi sia bulgari che macedoni, e inoltre inclusioni di moravismi e parole greche non tradotte (come «gallo», che chissà perché resta fino ad oggi alektor nella narrazione evangelica...). Ma l’essenziale non è qui, perché in realtà il
materiale del linguaggio tribale precedente la scrittura era solo un materiale, una carne verbale, in cui i traduttori, i santi Cirillo e Metodio infusero uno spirito greco completamente diverso, nuovo. Generalmente vengono chiamati autori della scrittura slava: in realtà, sarebbe giusto chiamarli autori della lingua liturgica slava, di questo particolare linguaggio che, secondo me, non ha analogie. E per questo, quando chiamano la lingua cirillo-metodiana, ad esempio, bulgaro antico, russo antico, macedone antico, queste privatizzazioni nazionali sono ingiuste; in ogni caso, in ciascuna di queste definizioni va inserita ancora una parola: bulgaro ecclesiastico antico, russo ecclesiastico antico, ecc., perché si tratta di una lingua creata nella Chiesa e per la Chiesa. Come abbiamo detto, esclusivamente per l’uso ecclesiastico. La sua straordinaria purezza funzionale era il vanto dei letterati dell’Antica Rus’. Nel trattato del monaco bulgaro Chrabr Sulle lettere, la superiorità della lingua slava veniva motivata con il fatto che non esisteva un’altra lingua così pura. In essa non si scrivevano credenziali, decreti statali, poesie profane; in essa non si svolgevano futili conversazioni quotidiane. Non la si usava per parlare, ma solo per pregare Dio. E lo si pregava con parole scelte da monaci e santi. La lingua slava ecclesiastica ha conservato questa proprietà fino ai giorni nostri.

Quanto alla comprensibilità, evidentemente questa lingua non è mai stata comprensibile per chi non conosceva il greco. Vi sono parecchie testimonianze sulla sua scarsa comprensibilità, nel XIX secolo. Se non altro la famosa scena di Guerra e pace in cui Natasˇa Rostova prega, e interpreta la frase «preghiamo in pace il Signore» come «preghiamo insieme a tutto il mondo il Signore» [gioco di parole con mir, che significa sia pace che mondo. ndt], e «per la pace che viene dall’alto», come se si parlasse di «angeli», e via di questo passo… Non c’è da meravigliarsi che non la capissero nobili e contadini, ma spesso non la capivano neppure i membri del clero. E probabilmente questo non preoccupava nessuno, perché nel corso dei secoli non vennero approntati né dizionari né grammatiche. Tanto più non c’è da meravigliarsi che non sia comprensibile ai nostri contemporanei, che non l’hanno neppure imparata a memoria come le nostre nonne, che ricordavano tutti i testi.

Una lingua sacrale

Le parlate slave non avevano sviluppato tutti i significati che servivano ad esprimere sia questi testi liturgici sia i testi della Scrittura. Possiamo figurarci così il lavoro compiuto da Cirillo e Metodio come traduttori: prendevano la parola greca che coincideva con quella slava nel suo significato più basso, e in qualche modo la univano ad essa. Così le parole duch («spirito») e pneuma si congiungevano al loro livello più basso, dychanie (respiro). Poi alla parola in questione si applicava la «verticale del significato», il contenuto della parola duch sviluppato dalla civiltà greca, dalla teologia greca. Le parlate russe non arrivarono mai a sviluppare questo significato. In questi dialetti duch continuò a significare «respiro» o «forza vitale». «Non ha duch» significa «morirà presto», non ha più forza vitale. Questo nuovo linguaggio era in un certo senso artificiale, per quanto creato su una base reale, a differenza delle lingue artificiali sul tipo dell’Esperanto. Non dipendeva puramente dalle leggi linguistiche. Alcune particolarità dell’ortografia, per esempio, si spiegano dogmaticamente e non linguisticamente. Perché una parola vada scritta in un modo, e un’altra in un altro, per distinguere, ad esempio angel («angelo») da aggel («spirito maligno»). Perché il termine slovo, nel significato di «parola» (e in altri significati: nel mio dizionario ne ho elencati nove) abbia un certo tipo di declinazione (slovo – slovesi e così via), mentre nel significato di «Verbo» divino si declina diversamente: Slovo – Slova e così via. Sulle orme di Boris Uspenskij io considero il rapporto fra russo e slavo come una situazione di diglossia, quando due lingue vengono recepite come una sola, ma le sfere del loro impiego non si intersecano. La traduzione tra le due è impossibile. Il russo ha appaltato allo slavo tutta la sfera dei concetti elevati. E poi ha preso a prestito il vocabolario dello slavo ecclesiastico per il suo «stile aulico». Perfino all’interno della lingua russa, se sostituiamo gli slavismi con parole russe, non se ne ricava semplicemente un abbassamento di stile, ma un cambiamento di senso. Come mostrava il mio insegnante, Nikita Il’icˇ Tolstoj, proponendo di tradurre in russo l’espressione slava ustami mladenca glagolet istina («la verità parla con la bocca dei bimbi e dei lattanti»). Se ne ricava questo risultato: rtom rebenka govorit pravda. La parola nello slavo ecclesiastico rimanda sempre, oltre che allo stile aulico, anche a significati metaforici, simbolici, mentre il russo no, è concreto. Glaza («occhi») sono gli occhi fisici, mentre il termine slavo ocˇi può indicare occhi bellissimi oppure immateriali. E dire, ad esempio di un angelo, che guarda con glaza «immateriali», oppure parlare della mano di Dio usando il termine russo ladon’, anziché lo slavo dlan’, costituisce un’immagine poetica molto azzardata. Questa eredità della diglossia dà filo da torcere ai traduttori in russo. Quando abbiamo a che fare con testi aulici della poesia occidentale, ad esempio Dante o Rilke, in cui compare un angelo, immancabilmente, involontariamente passeremo allo slavo per descrivere tutto ciò che lo riguarda, gli occhi, il volto (ocˇi, lik). Nell’originale non esiste questa bidimensionalità linguistica, esiste un’unica parola, Augen e così via, mentre noi dobbiamo scegliere tra ocˇi e glaza, usta e rot e via di questo passo. Si usa esprimere in russo tutto ciò che è elevato ricorrendo immancabilmente al lessico slavo ecclesiastico, conferendogli in tal modo una patina arcaica. Sono esistiti, naturalmente, dei tentativi di «secolarizzare» la lingua poetica, e uno di questi sono le poesie del Dottor Zˇivago, dove molto nettamente e deliberatamente il linguaggio è sempre il russo moderno. Ma in genere i poeti non si sono risolti a questo passo.

La parola slava, dunque, non è concreta ma simbolica: il suo significato si accoglie, più che comprenderlo. Un’altra sua proprietà è la percezione che se ne ha come di una parola intensa, sacra. Ha una forza quasi magica. Ecco un esempio molto significativo della nostra storia, in cui la particolare potenza insita della lingua slava ecclesiastica venne usata in maniera molto attiva: l’epoca dell’organizzazione rivoluzionaria «Volontà del popolo» e la poesia di Nekrasov. I membri di questo movimento scrivono nelle loro memorie, che se avessero letto gli articoli teorici dei socialisti, scritti in una dotta lingua «occidentale», la cosa non avrebbe avuto grande influsso su di loro. Ma Nekrasov, che traspose questo stato d’animo in versi, usò in maniera insolitamente e inaspettatamente ricca la lingua slava ecclesiastica, la sua tipicità, le sue parole lunghe e composite:

От ликующих, праздноболтающих,
Обагряющих руки в крови
Уведи меня в стан умирающих
За великое дело любви.

Da quanti esultano, vacuamente ciarlano,
Intingono nel sangue le lor mani,
Allontanami e dammi di passar [tra i perituri
Per la suprema causa dell’amore.

Qui si è infiltrata la lingua liturgica, e insieme ad essa un’atmosfera di preghiera e di celebrazione rituale. Fu proprio questa lingua ad esercitare un grande fascino sulla gioventù dell’epoca, perché suggeriva in qualche modo che la loro causa era una prosecuzione della liturgia, un’immolazione volontaria della propria vita in favore degli umiliati e oppressi.

Un episodio molto diverso di recupero della forza della parola dello slavo ecclesiastico è l’epoca staliniana, quando la lingua ufficiale era composta in gran parte di slavismi (negli anni ‘20 c’era una lingua completamente
diversa, espressionista ed intellettuale). Ad esempio, «Evviva l’Unione Sovietica» (Da zdravstvuet Sovetskij Sojuz) è una frase interamente slava. I testi ufficiali acquisivano così un carattere «sacrale», non comprensibile fino in fondo e inconfutabile.

Vi sono anche risultati più sottili dell’influsso dell’elemento slavo ecclesiastico sulla cultura russa, ma li tralascio. Ritengo che alcune caratteristiche della poesia russa siano legate a queste peculiarità di una lingua sacra di grande autorità, ma non comprensibile. In questo senso, penso che il più virtuoso erede della lingua slava ecclesiastica sia Aleksandr Blok, che non usa mai dotti slavismi, a differenza, ad esempio, di Vjacˇeslav Ivanov, ma la cui lingua racchiude in sé la forza irreale e «magica» della parola dello slavo ecclesiastico:

Милая, безбожная, пустая,
Незабвенная, прости меня!

Dolce, atea, vuota,
indimenticabile, perdonami!

Per superare gli equivoci

L’aspetto opposto della diglossia slavo-russa è l’involontaria lettura di parole slave nel contesto russo. Io penso che sia questa la causa principale di «incomprensione» o «errata comprensione» dei testi slavi ecclesiastici. A questo problema è dedicato il dizionario che ho composto e continuo a integrare, e che ha già avuto tre edizioni. Esso comprende parole comuni a entrambe le lingue, proprio quelle che sembrano le «più comprensibili». E invece inducono in errore. Non voglio tediarvi con troppi esempi, ve ne farò solo uno, il mio preferito, la parola nepostojannyj (in greco astatos). Tutti dicevano tranquillamente che nepostojanno, è chiaro, significa mutevole, incostante. In questo caso la frase «nepostojanno velicˇie slavy Tvoeja» significherebbe «incostante è la grandezza della Tua grazia». E quando io dicevo: «Ma la grazia divina non può essere mutevole, è sempre la stessa», le persone si confondevano. In realtà, in slavo nepostojanno non ha niente a che vedere con l’incostanza, questo è il significato russo della parola. In slavo significa «qualcosa contro cui non si può andare, resistere (ne-postojat’). Cioè, una grandezza «invincibile, irresistibile».

Non sono mai esistiti simili vocabolari della lingua slava ecclesiastica, ciò che io ho fatto è in effetti il primo tentativo.

All’inizio del mio lavoro su queste parole «apparentemente comprensibili», io pensavo che si trattasse di correggere errori ed equivoci esistenti anche nelle traduzioni in lingue occidentali. Questa incomprensione o comprensione nel contesto russo dei termini slavi accomuna anche coloro che traducono la liturgia ortodossa in altre lingue. Confrontando le traduzioni dei testi liturgici in inglese, francese e tedesco, ho visto che equivoci di questo genere sono numerosi. Ad esempio, umilenie viene tradotto ovunque come «tenerezza». Ma questo è il significato russo della parola. In slavo umilenie (in greco katanuksis) significa «contrizione», «pentimento istantaneo» e non «tenerezza». L’icona della Madre di Dio Umilenie (che noi chiamiamo comunemente «della Tenerezza»), non si riferisce alla tenerezza della Vergine, ma all’acuto pentimento che quest’immagine induce nel peccatore che la guarda.

Gradualmente, però, ho visto un altro aspetto di questa lettura russa degli slavismi, che non solo ne altera il significato diretto, ma crea l’immagine dell’ortodossia russa. In un articolo dedicato al confronto fra le tradizioni cattolica e ortodossa, padre Vladimir Zelinskij si sofferma sulla parola cˇaju(«aspetto») nel «simbolo di fede»: «Aspetto la resurrezione dei morti». Cˇaju e cˇajanie indicano un’attesa non troppo certa, indeterminata, quasi un «sogno», una «visione di speranza», per usare le parole di padre Vladimir, che la mette a confronto con il fermo «aspetto» nei testi cattolici del Credo2. E in effetti questo atteggiamento è caratteristico dell’animo ortodosso. Ma la parola cˇaju in slavo significa esattamente «aspetto», nel semplice significato che in questo contesto
la parola ha in greco, latino e italiano. Di quanti sono adagiati alla Piscina della Porta delle Pecore, leggiamo che attendevano – cˇajusˇcˇie – che l’angelo agitasse l’acqua: e attendevano con piena certezza. Questi
nuovi significati (così come quello della parola upovanie (invece del russo nadezˇda, speranza), da lui esaminati, sono stati in realtà acquisiti nell’uso russo! Nell’uso russo, che toglie sempre alla parola slava concretezza e determinazione.

Vi sono altre due parole-chiave, che concorrono a formare il volto dell’ortodossia russa: tichij (silenzioso) e teplyj (moderatamente caldo). Proprio così si connota ai nostri occhi la tradizionale pietà popolare. Ma quest’immagine è stata formata dal significato di queste due parole in russo. In slavo teplyj non significa «moderatamente caldo», ma al contrario, «ardente, infuocato, fervente». Teplyj molitvennik è un uomo che prega con ardore, fervorosamente. Invece il tepore, a cui pensiamo in relazione all’ortodossia, ha una configurazione tutta diversa. «Ardente patrona del gelido mondo», come nella poesia di Lermontov. Lo stesso per la parola tichij. «Tichim i milostivym vonmi okom». La parola slava tichij, differentemente dall’accezione russa del termine, non si riferisce ad uno smorzamento acustico (tichij golos, «voce sommessa»), a una certa passività, inazione. Tichij è invece, innanzitutto, ciò che è senza pericoli né minacce. Come la calma sul mare, l’assenza di bufera. In questo senso un sovrano può essere chiamato tisˇajsˇcˇij, Serenissimus. Inoltre, la parola tichij rende il greco «lieto», hilaros: Svete tichij, uno degli inni ortodossi più belli, significa letteralmente «Luce gioiosa, consolatrice». Non si tratta infatti della luce declinante del tramonto, come siamo soliti pensare: è la preghiera che si recita quando vengono accese le luci notturne. Oppure, ticha bo datelja ljubit Bog, cioè «il Signore ama chi dona con gioia», mentre in russo noi intenderemmo «chi dona senza farsene accorgere, segretamente».

Che cos’è l’ortodossia russa come stilistica, come immagine? Noi subito rammentiamo «quiete» e «tepore», esattamente i termini citati sopra, nelle loro accezioni erronee.

Oppure la parola upovanie, nel suo significato russo di speranza trepida e incerta. Sono molte le parole e i concetti chiave che si trovano in questa situazione; che fare, dunque? È un problema sia storico che culturale. Lo storico si rende conto che il significato originario ad un certo punto è cambiato e ha continuato a esistere per secoli in questo aspetto modificato. Bisogna tornare all’inizio? Ma anche questa alterazione ha portato a modo suo dei frutti, ha creato delle forme. È già una tradizione, la grande tradizione della percezione nel cristianesimo orientale, e non semplicemente un equivoco linguistico. Per questo, quando precisiamo i significati (cosa indispensabile per la comprensione dei testi liturgici slavi), mi sembra che occorra una particolare delicatezza, per non «cancellare» ciò che è tanto caro, che è penetrato anche nella cultura laica. Che ormai resterà per sempre impresso come un’immagine familiare. Come questa stessa bellezza, da cui ho cominciato, e senza la quale l’ortodossia sarebbe impensabile. via. Sulle orme di Boris Uspenskij io considero il rapporto fra russo e slavo come una situazione di diglossia, quando due lingue vengono recepite come una sola, ma le sfere del loro impiego non si intersecano. La traduzione tra le due
L A N U O V A E U R O P A 1 • 2 0 1 0

1 A. Sˇmeman, Sobranie statej (Raccolta di articoli), Mosca 2009, p. 501.

2 V. Zelinskij, Narecˇenie imeni (L’imposizione del nome), Kiev 2008, p. 348.
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